13 settembre 2017

O CEBREIRO – SAMOS Lunedì, 9 Agosto 2010 XXV tappa

“Quello che prima dovevo nascondere nel più intimo del mio cuore, ormai lo posso proclamare a voce alta e forte: credo, confesso. Signore è possibile che rinasca colui che è già giunto alla meta della sua vita? (Gv 3,4) Questo hai detto, e si è verificato per me….Nessun cuore umano può capire quello che tu riservi a coloro che ti amano. Ora che ti ho stretto a me non ti lascerò (Ct 3,4). Qualunque sia il cammino della mia vita, tu sei con me. Niente mi separerà dal tuo amore. (Santa Teresa Benedetta della Croce /Edith Stein\).
 
Come di consueto, ormai, alle 6,00 eravamo ancora avvolti dal buio, ma già in strada. Decidiamo di optare per l’asfalto per due motivi: si vedeva veramente poco e per il fatto che avevo dovuto calzare i sandali a causa della medicazione del giorno prima. Questo secondo motivo, ovviamente mi avrebbe fatto camminare male in quanto non potevo utilizzare i plantari ad hoc che sono costretto a portare.
In ogni modo, come sempre, l’aria fresca del mattino ti carica di energie e senza indugio, via per la strada in discesa ed in un “attimo” siamo al paese successivo, Linares. Alle spalle di questo borgo, sui declivi, in lontananza alcune lucine che ondeggiano: sono altri pellegrini che hanno seguito il sentiero a monte e scendono con le pile in mano. Da questo punto tutti confluiscono e si segue, anzi si risale, sulla provinciale per arrivare all’Alto de San Roque. Luogo di eccellente panoramicità, oltre che ventoso. Infatti è qui che si ammira la famosa statua del pellegrino che incede contro il vento. Dopo la foto di rito, sotto di noi un mare di nuvole, sentiamo il freddo che ci graffia e velocemente ci spinge a ridiscendere verso il paese di Hospital De La Condesa, dove ci fermiamo per la colazione e dove mi approvvigiono di alcune confezione di frutta secca. Come mi sembra di aver già detto, confermo che tenute a portata di mano, sono come delle spille energetiche mentre cammino, quando vi faccio ricorso.
E ce n’è ancora bisogno perché bisogna risalire ancora per giungere all’Alto Do Poyo. Da qui, finalmente è tutta discesa, piacevole, su sentiero ben battuto e attraversando uno dopo l’altro i paesini di Fondria, Viduedo, Filloval. Lungo il tragitto, campagna, animali, alberi da frutto, casolari, ogni giro di marcia un quadro diverso con i suoi colori forti, in movimento, che si trascinano da una tonalità all’altra senza fine. I nostri sguardi ci sguazzano, ne siamo parte integrata, attiva e ci sentiamo felici, corriamo quasi. Ci danno fastidio solo i contenitori di plastica che contenevano delle fragole che un contadino proponeva ai pellegrini e che per almeno 500 metri punteggiavano il tracciato. Non un bel esempio di cura del creato, ma è un discorso che abbiamo già fatto. Il fastidio è presto superato, quando giungiamo al cospetto di un magnifico esemplare di castagno presso il villaggio di As Pasantes. Dicono che abbia più di quattrocento anni. Uno spettacolo, ti viene proprio voglia di abbracciarlo.
L’euforia non si placa neppure quando verso mezzogiorno giungiamo a Tricastela, l’importante cittadina di fine tappa, almeno così era nei progetti del giorno prima. Presso il rifugio comunale, che apriva alle 14,00 c’era già una lunga fila di zaini parcheggiati come segnaposti al momento dell’apertura. Cosa facciamo?, proseguiamo? Sappiamo di Samos e del suo famoso Monastero, non è proprio sul cammino, bisogna fare una variante che allunga, così diceva l’indicazione, di cinque chilometri. Era presto, stavamo bene, eravamo interessati a visitare quel monumento religioso, un’oretta in più non ci avrebbe distrutto…e invece.
I chilometri in più sono diventati 10 e sembrava non finissero mai, addirittura pensavamo di esserci persi, in quel continuo inoltrarsi in boschi su boschi. Certamente molto suggestivi, con scorci da continuare a fermarsi per fotografarli, ma non ce n’era più. Fatica su fatica, fino a quando dall’alto di una scarpata intravediamo, in basso la massiccia squadrata sagoma del monastero. Ci siamo. Ripida discesa e ricerca dell’ostello che è…ancora chiuso. Anche qui fila di zaini parcheggiati, e sfiancati loro padroni stravaccati a fianco, in attesa dell’apertura che, dicono, è prevista per le 15,00. Tiriamo il fiato, mentre aspettiamo mangiamo qualcosa e parliamo con i vicini di corsia. Appena dopo di noi è arrivato un tizio, italiano, veneto, zoppicante perché senza una suola, l’ha persa senza accorgersene, tanto era sfinito. La sua famigliola, moglie e figli adolescenti, sono giunti dopo con la suola in mano, una bella soddisfazione. Nel frattempo ci eravamo registrati e sistemati nell’unico stanzone da 50/60 posti letti, ricavato da un’ala disabitata del monastero. I servizi lasciavano a desiderare, pochi per i pellegrini che velocemente hanno occupato tutte le brande.
Il resto della giornata, com’è facile immaginare, l’abbiamo impegnata per la visita, guidata, al monastero, attualmente tenuto da benedettini.
In attesa per l’inizio della visita, guardo il mio piede destro e, con stupore, noto che la caviglia è gonfia come una palla, ma non mi fa male. Deduco che è la conseguenza dell’aver camminato senza i miei plantari. E come d’incanto, dopo un po’ che giriamo per i chiostri, comincio a zoppicare: la forza della suggestione. Al ritorno in branda è d’obbligo il riposo con l’utilizzo di ghiaccio secco. Verso l’imbrunire ci rimettiamo in pista per cercare un posto per la cena, che troviamo con adeguata soddisfazione. Non altrettanto soddisfatti, invece, della sistemazione in hostal perché l’unico camerone crea confusione e difficoltà ad addormentarsi. Quelli, poi, che sono vicini alle porte dei servizi sono sotto supplizio. La stanchezza, alla fine, vince e poco alla volta non ci sono rumori che tengono o luci che si riaccendono, risate che si alzano o bisbigli che si attenuano, lasciando spazio ai classici sogni d’oro di chi è in pace con sé stesso.