Domenica XXIV T.O.(Anno A)
Una delle cose più difficili da fare nella
vita di tutti i giorni è proprio quella di saper perdonare. Quanto odio viene
coltivato quando sono famiglie, fazioni, popoli che non riescono a dimenticare
torti subiti e vogliono rispondere con la stessa moneta.
Quante coppie vanno in crisi perché non c’è
la forza del perdono per l’errore dell’altro, provocando dolore e
incomprensioni.
Quante famiglie si sfasciano perché l’orgoglio
è più forte dell’umiltà e la supponenza diventa la regola per rispondere alle
colpe di ognuno.
Pietro che sapeva bene cosa vuol dire vivere
in famiglia, che si spendeva sul lavoro estenuante e nei rapporti fra i suoi
concittadini con relative liti e ingiustizie subite, ecco che capisce
l’antifona e chiede al Signore:
“Signore, se il mio fratello commette colpe
contro di me, quante volte devo perdonargli? Fino a sette volte sette? E Gesù
gli rispose: “non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte
sette”…se non perdonerete di cuore…” (Vangelo)
Da sottolineare soprattutto quel “se non
perdonerete di cuore”, perché al Signore non interessa, di per sé, il
formalismo.
Consiglia, sì, di andare oltre la legge, però
vuole il cambiamento fondamentale che nasce solo dal profondo di sé stessi.
D’altra parte la vita qui sulla terra è una
sola ed è molto breve. Crediamo di essere padroni della vita al punto di
volerla manipolare a nostro piacimento. E non ci accorgiamo che ci stiamo
ingannando, che ci vogliamo ergere a dio. Poveri illusi, il tempo della fine ci
raggiunge velocemente, non possiamo perdere tempo a ragionarci più di tanto,
così come ci consiglia il Salmo:
“…l’uomo: come l’erba sono i suoi giorni!
Come un fiore di campo, così egli fiorisce. Se un vento lo investe, non è più,
né più lo riconosce la sua dimora…”
Se è vero, come è vero che la vita di ogni
uomo, la nostra vita, è così, non ci rimane molto tempo per, ogni volta, essere
capaci di perdonare.
Soprattutto nella Chiesa, fra i fratelli nella
fede. Il perché lo spiega molto bene San Paolo nella lettera ai Romani:
“…nessuno di noi, infatti, vive per sé stesso
e nessuno muore per sé stesso, perché, se noi viviamo per il Signore, se noi
moriamo, moriamo per il Signore…”
Viviamo per il Signore, certo, perché vivendo
in Lui sperimentiamo la metodica reale e concreta di condurre la nostra
quotidianità che si abbevera continuamente alla fonte della Parola, come quella
del Siracide:
“…ricordati della fine e smetti di odiare,
della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti…”
E tutto alla fine si racchiude nel “resta
fedele ai comandamenti” di Dio. Che sono precisi, inequivocabili e sprigionano
la regola d’oro dell’Amore, dell’accoglienza.
Sono il preludio per quell’inno alla vita che
canta “ogni vita che nasce è segno perpetuo dell’Amore di Dio per l’uomo”.
Rimarcando come quell’inno sia,
conseguentemente, anche segno che Dio non si è ancora stancato dell’uomo.
In aggiunta, si può solo dire che il Signore
nel perdono supera alla grande le settanta volte sette perché lo fa con il suo
cuore misericordioso.
Lui perdona con il cuore.
Sir 27,30-28,7 / Sal 102(103) / Rm 14,7-9 /
Mt 18,21-35
digiemme