DIARIO DI UN PELLEGRINO: LOS ARCOS – LOGRONO 11-08-2008 Settima tappa 8 h. di cammin

“Tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno” Mt 26,52
“Sono venuto a portare non pace, ma spada” Mt 10,34
Partiamo da Los Arcos che è ancora buio, il cielo è nuvoloso, la temperatura è intorno ai 13/14 gradi, fa freschino. Nel pomeriggio il caldo segnerà 33/34 gradi; non male come sbalzo termico. Tanto per avere un’idea dell’evolversi della giornata.
All’uscita del paese fiancheggiamo il cimitero, e tiriamo dritto, avrei voluto leggere l’iscrizione che sapevo c’era “Yo che fui lo que tù eres, tù seràs lo que yo soy” che dice più o meno “Io fui quello che tu sei, tu sarai quello che io sono”, ma come dicevo era ancora buio, perciò…anche le tremule luci votive al tenue lontano chiaror dell’aurora c’invitarono ad allungare il passo.
Siamo nella regione della Rioja, molto conosciuta anche a livello internazionale per l’eccellente vino “tinto” che si produce negli estesi vigneti della sua terra.
E’ facilmente immaginabile, quindi, un profilo paesaggistico scandagliato in un continuo terrazzamento su ondulate e armoniose linee di avvallamenti, “alti”, declivi, tratti interrotti da casolari o “Ermite”.
Quest’oggi di chiese campestri (appunto le “Ermite”) ne incontreremo due: l’Ermita de la Virgen de Poya (XVI secolo) prima dell’Alto de Poyo e l’Ermita del la Virgen de Las Cuevas, dopo Viana.
Adesso di meno, ma prima queste Ermite, oltre ad essere luoghi di culto erette e dedicate quasi sempre in devozione della Madre di Gesù, erano anche le ultime possibilità di ricovero e di aiuto per quei pellegrini in difficoltà e lontani dai centri abitati.
Ora sono solo, per i pellegrini, punti di riferimento chilometrico per il dipanarsi della tappa e momentanea sosta di riposo oltre che spirituale (una preghiera viene sempre strappata).
Comunque sia, questa odierna camminata si preannuncia di media difficoltà per la lunghezza e alcuni strappi. Al mattino presto, quando si è ancora arzilli e sembra di avere le ali ai piedi, tanto ci si sente leggeri, è uno spettacolo vedere come per magia la tua ombra si allunghi sempre più avanti a te. Il sole è sempre alle nostre spalle, noi andiamo verso ovest, “eh già”, ci diciamo, siamo verso la direzione giusta.
L’alba si è svegliata del tutto e noi siamo a Sansol e da qui già vediamo poco oltre Torre del Rio, come se fossimo su una balconata. Scendiamo, non prima di aver acquistato del pane da un panettiere ambulante, con furgoncino come bancarella, cui gli abitanti Sansolesi si avvicinano con frastornante allegria. Miracolo del pane.
Fra gli sbalzi dei due paesi incrociamo i due rotondi sordomuti pellegrini di Roncesvalles che ci riconoscono e con il loro buffo linguaggio ce lo fanno capire.
A Torre del Rio abbiamo la fortuna sfacciata di trovare aperta la famosa Chiesa del Santo Sepolcro, un altro gioiello artistico di origine templare: piccola, con un singolare portale, ottagonale con capitelli come capolavori scultorei ed una volta finemente intrecciata che ti fa girare la testa, tanto non ti stancheresti di ammirarla. All’esterno una torre che, dicono, serviva come faro, accendendo un fuoco, per indicare strada ai pellegrini spersi. Oppure, più semplicemente, essendo la chiesa pensata come cappella dei morti, quando si officiava il funerale si accendeva la “lanterna dei morti” che sovrasta, appunto, la torre.
E’, comunque, un bel assaporare l’atmosfera che queste nude e racchiuse mura custodiscono nei secoli. A malincuore, riprendiamo la nostra via che ci indica già in alto la città di Viana. Sembra che sia lì a portata di mano, ed invece solo con sudore grondante, come un camion carico di sabbia appena dragata dal fiume, guadagnamo l’ingresso alla vecchia cittadella, dove nella piazza principale ci sdraiamo per riprendere fiato e successivamente, sfruttando un bar aperto, rifocillarsi in quel di mezzogiorno.
La chiesa è chiusa, ma ben sappiamo che in essa è sepolto Cesare Borgia, uno dei figli del papa Alessandro VI. Questo mercenario d’armi e di vita qui è stato fermato dalla morte per un duello perso con il conte Lerin nel 1507. Leggiamo e fotografiamo la lapide che sul sagrato della chiesa ne ricorda la presenza non senza alcune considerazioni, nostre, su questa “maledetta” famiglia Borgia. Almeno due: la Chiesa di Dio anche senza papi santi regge lo stesso il peso della sua età e della sua missione perché non è di nessun papa, grande o miserevole che sia; chi vive del sopruso, chi fa della sua vita uno schizzo di violenza, di ricerca del potere ad ogni costo, chi sfoggia bramosia e violenza, prima o poi cade proprio sul suo terreno. La morte con la spada recide e tronca nella stessa logica del contrappasso. Da tracotanza a tracotanza, da spada a spada.
La città è molto bella, ma dobbiamo lasciarla perché il sole di mezzogiorno è già cambiato nel solleone del pomeriggio e la faccenda si fa preoccupante. Riprendiamo, avanti, una sosta, un’altra carica di zaini in spalla, fino ad una zona umida, lacustre, un piccolo parco fluviale, che ci concede almeno la vista di un orizzonte meno infuocato.
Riusciamo così a superare anche l’orrida periferia di Logrono, devastata da lavori in corso per nuovi insediamenti produttivi e/o commerciali che rendono difficoltoso tenere la barra del giusto tragitto.
Poco prima di entrare in Logrono, si passa davanti a “casa Felicita”, una semplice abitazione sul ciglio della strada che funge da bazar: bibite, frutta, depliants, biglietti da visita, oggetti vari per camminatori e acqua fresca a volontà. Una panchina per scambiare due parole e chiedere qualche informazione. La signora che si affaccenda attorno è la figlia della Senora Felicita, ormai morta, che era diventata un personaggio sul cammino per la “mission” verso i pellegrini per i quali aveva scelto di vivere alla porta della sua casa per sostenere l’impresa, sua, per raggranellare qualche cosa, e spronare e incoraggiare i viandanti verso il Santo.  La figlia ne ha raccolto l’eredità e la leggenda continua.
Entriamo in Logrono per un potente ponte in pietra sull’Ebro e siamo già nel centro storico. Passiamo davanti al rifugio municipale, dove intravediamo in cortile una vasca con fontana zampillante che proprio invita a bagnare i doloranti piedi come fanno già alcuni più fortunati. Quest’oggi preferiamo consultare i vari depliants raccolti per strada e troviamo una stanza con bagno in pensione proprio dietro la Cattedrale de Santa Maria la Redonda, gotica del XV con due imponenti torri laterali, che però è chiusa.
Logrono è una città piacevole: strette vie, tipo carugi, ampie piazze e moderni palazzi con portici e negozi, bar, ristoranti, traffico e spazi urbanistici ben armonizzati nell’ottica di una moderna city.
Non possiamo visitare la cattedrale, in compenso la chiesa di Santiago el Real che conserva la statua di Santiago “matamoros” diventa il nostro relax spirituale e ci offre un breve excursus storico.
A pochi chilometri da Logrono, verso sud, vi è la città di Clavijo, dove si volse la famosa battaglia tra cristiani e musulmani, il 23 maggio 844. Le truppe cristiane comandate dal re Raniero I erano in difficoltà contro le ben più numerose armate di mori guidati da Abderraman II. L’esito del combattimento sembrava ormai segnato a favore dei maomettani, quando, invocato con incessanti preghiere, apparve improvvisamente su di un gran cavallo bianco, con stendardo rosso crociato e spada imbracciata, San Giacomo che trascinò alla vittoria l’esercito cristiano. E il Santo si conquistò sul campo l’appellativo di “matamoros”, ammazza mori. Adesso non è più politicamente corretto presentarlo in questa iconografica posizione. Ma la storia non si può cancellare e se cerchi di nasconderne un aspetto, ne risorge un altro.
Come il crocifisso, quella croce è detta di San Giacomo. Infatti, da allora la croce di Santiago viene disegnata come fosse una spada. E’ diventata un simbolo cavalleresco, la si trova stampata sulle conchiglie che portiamo sugli zaini, a testimonianza, inoltre, di una devozione nella fede cristiana.
Nei negozi di ricordi è uno degli oggetti più gettonati. Quando ne ho vista una di semplice legno con grezza cordicella, me la sono messa al collo e da quel momento non l’ho più tolta. Mi è compagna quotidiana sul lavoro, in casa, in giro e permette a chiunque di capire velocemente di che pasta sono fatto. Senza ostentazione, con semplicità di comportamento, sapendo che non passerà inosservata. E’ una spada che non taglia, eppure affilata nel determinare scelte e comportamenti coerenti con la fede che la croce di Cristo chiede ai suoi seguaci. E’ un modo di difendere la propria identità, pronti anche al sacrificio pur di non indietreggiare contro il sopruso e la cristiano fobia che impera in questi ultimi anni, soprattutto nell’ex Europa che ha rinnegato le proprie radici cristiane.
In sintesi, c’è chi rinnega e chi si alza ogni volta è minacciata la libertà di professare pubblicamente la propria fede; c’è chi si vende e chi non è disposto a mollare un solo centimetro della sua terra; c’è chi abbandona e chi, invece, vuole lottare.
Quante suggestioni, quante note, quante riflessioni e quanti rimandi da quella spada impugnata da San Giacomo a questa croce che poggia sul mio petto.
Capisci, allora, che il pellegrinaggio non è più solo un insieme di gesti o azioni devozionali, comprendi che può diventare uno stile di vita.
E con stile, leggermente migliore rispetto la sera precedente , ci siamo immersi nella movida logronese, con apericena alla spagnola,  ma solo per quel minimo necessario ad un sufficiente pasto propedeutico ad una “Buenas Tarde”.

Gaetano Mercorillo