“Esulti il santo, perché si avvicina il premio.
Gioisca il peccatore, perché è invitato al perdono,
si rianimi il pagano, perché è chiamato alla vita.”
Gioisca il peccatore, perché è invitato al perdono,
si rianimi il pagano, perché è chiamato alla vita.”
San Leone Magno
Alle sette in punto siamo già fuori Estella, su cui veglia dall’alto la Basilica
de Nuestra Senora del Puy, e caracolliamo per le vie della vicina Ayegui. Ci
avviamo per una deviazione che allunga un poco, ma ne vale la pena perché
incontriamo la prima delle due fonti della giornata. E’ del tutto particolare e
famosa perché è una fonte, di Hirache (bodegas Irache), da cui zampilla…vino. Il
tutto grazie ad un’importante azienda vinicola della zona che si fa pubblicità e
che vuole allietare i passi dei pellegrini. Ci arriviamo che già altri ci hanno
preceduti e si godono il piacevole nettare (un po’ acidulo) come colazione.
Sopra il rubinetto si legge “Pellegrino, si quiete llegar a Santiago con fuerza
e vitalidad, de este gran vino echa
un trago y brinda por la felicidad” (pellegrino se vuoi raggiungere Santiago con
forza e vitalità, bevi un sorso di questo gran vino e brinda per la felicità).
Assaggiato il vino, pochi metri più avanti ci fermiamo per ammirare l’imponente
monastero di Nuestra Senora Santa Maria La Real d’Irache, uno dei più importanti
sul cammino. Nei suoi tempi d’oro fu pure sede dell’Università di Navarra,
adesso è in stato di semiabbandono. Spesso questi luoghi di religiosità furono
anche speciali Hospital per pellegrini che vi trovavano giovamento fisico e
spirituale. Ne incontreremo altri cammin facendo, alcuni li abbiamo potuti
visitare con l’utilizzo dell’automobile. Infatti, quando arrivavamo a
destinazione, spesso se avanzavamo tempo, con i mezzi pubblici tornavamo a
prendere la macchina per portarla più avanti e nel contempo sfruttavamo
l’occasione per girare i dintorni. Come per il Monasteiro de Iranzu, a 10 km. da
Estella. Per giungerci sembra di uscire dal mondo, isolato, al fondo di una
forra, su una strada sempre più stretta che all’improvviso si apre su una
valletta con al centro il monastero, non più abitato dai cistercensi, ormai solo
attrazione storica che si può apprezzare, unitamente al museo che racconta la
sua vita. Altro monastero che abbiamo potuto scoprire con l’automezzo è quello
di San Millan de la Cogolla, incastonato
fra rocciosi pendii, dedicato alla memoria di San Emiliano eremita. Anzi, qui i
monasteri sono due, quello superiore detto San Millan de Suso che sorse nelle
grotte dove viveva l’eremita e quello costruito successivamente (XI secolo) più
in basso chiamato San Millan de Yuso. Più avanti, alloggeremo presso il
Monastero di Samos che avremo pure modo di visitare in largo e in lungo.
Ecco perché possiamo dire che siamo andati anche per monasteri. Viene da dire
che se il cammino respira con due polmoni, il primo è lo snodarsi della traccia
che porta a Santiago, quello della fisicità e della concretezza quotidiana per
sopravvivervi, il secondo è quello dei monasteri, dove lo spirito trova pace e
suggestioni per consolidare la fede e la propria dimensione religiosa. La
citazione di San Gregorio Magno, in testa di capitolo, trova, quindi, sua giusta
collocazione.
Tornando alla tappa odierna, l’ultima che si percorre in Navarra, ci portiamo
avanti perché ci aspettano altre sorprese. Intanto la giornata si presenta
limpidissima e quando arriviamo a Azqueta ci fermiamo per la colazione presso il
bar del paese. E’ qui che veniamo a conoscenza di un uomo, Pablito, un
ottantenne che passa il tempo realizzando bastoni per regalarli ai pellegrini
che ne sono sprovvisti. Guai a non avere il bastone (il bordone) che serve per
aiutarsi nella fatica e per difendersi (nei tempi antichi, da lupi e
malfattori). Insieme alla zucca (l’arcaica borraccia), alla bisaccia (l’attuale
zaino) , alla mantella e al cappello dalle larghe falde è l’armamentario del
pellegrino doc.
Riprendiamo il passo con lo sguardo continuamente attratto dal profilo del
Castello di Monjardin che è fuori dal percorso, il cui nome francese ricorda il
passaggio di Carlo Magno che in questi luoghi fu presente in battaglie con i
suoi paladini. Anche il sottostante paese di Villamayor de Monjardin è ricco di
ricordi che rimandono a quelle gesta.
Il paesaggio è stupendo e così ci lustriamo gli occhi che godono anche della
scoperta della seconda fonte della giornata, quella detta Fuente de Los Moros.
Non è una classica “tromba”, è come una vasca, coperta, con l’ingresso a due
archi e con una lieve scalinata in discesa, che crea un ambiente fresco, dove
posson ben starci quattro cavalcature, lasciando immaginare, appunto, un riparo
per uomini e animali, soprattutto quando l’afa e il caldo raggiungono picchi
faticosamente insopportabili. L’acqua sembra limpida e pura, sembra perché non
c’è molta luce, e si lascia tentare, ma è molto fredda, perciò, zaino in spalla,
e avanti, in leggera salita per entrare a Villamayor, dove su una terrazzata che
s’affaccia sulla piazza principale del paese, c’è un negozio di alimentari e ci
facciamo una panino di quelli favolosi.
Ci carichiamo di acqua perché ci minacciano tredici chilometri di campagna,
senza ombra e senza niente, prima di toccare le mura di Los Arcos, che, chissà
perché, mi rimanda continuamente alla memoria dei fotogrammi del film Fort Alamo
con John Wayne.
Tracce fra vigneti, estesi campi di frumento, già raccolto, piantagioni di
asparagi e terrazzati oliveti: i colori sono ancora impressi nell’iride,
sbiancati solo dalla strada sterrata, bianca e polverosa che in un saliscendi
continuo, quasi senza accorgercene, ci conduce a Los Arcos sulla Calle Mayor che
taglia fino all’altra estremità della cittadina ai piedi di un arco d’ingresso.
E’ quest’opera architettonica, di classica fattura, come dire, “ispanica”, che
mi rimanda all’arco di fort Alamo così come la scenografia filmica l’ha impresso
nel mio immaginario.
Oltre l’arco che, insieme alle antiche mura, delimita la parte vecchia, c’è il
rifugio comunale cui mollemente ci avviamo e sono le 13.30, il sole picchia
maledettamente e l’ombra del portichetto dove siamo accolti da una gentile
ospitaliera è molto ben gradita.
L’ostello è molto bello e ben tenuto, più o meno come quello di Estella. Ci
sistemiamo ed il resto della domenica ci vede turisti per le vie, la chiesa, il
chiostro, la piazza, il giardino davanti al rifugio, con i chiari e scuro del
tardo pomeriggio ed il raccoglimento della Santa Messa preceduta dalla recita
del Rosario in spagnolo. Scopriamo così che la preghiera dell’Ave Maria è
guidata in modo inverso che da noi: la prima parte la declamano i fedeli, la
seconda parte la guida. A proposito dei fedeli che partecipano alla Messa,
assistiamo ad una seria aggregazione spirituale, segnata dal contegno e pure
dalla cura del vestire, che si sbraga in modo significativo allo “scambio di un
gesto di pace”: è tutto un baci e abbracci alla grande. Il classico estemporaneo
temperamento bollente mediterraneo. Per ultimo, non trovando il “Menù del Dìa”
perché domenica, scopriamo il rito della cena a base di “tapas”. Tutti attorno
ai banconi, un continuo self-service che proprio non capiamo come facciano i
gestori a seguire persona per persona ed è un caos di tortillas de patatas,
gambas a la plancia, patatas bravas, chorizo e chi più ne ha più ne metta. Un
sistema che, vedremo, prenderà piede anche da noi, con il giovanile successo
dell’apericena nelle varie movida, anche della nostra città.
Gaetano Mercorillo
Gaetano Mercorillo