DIARIO DI UN PELLEGRINO: ESTELLA – LOS ARCOS SESTA TAPPA 10.08.2008 …ANDAR PER MONASTERI


“Esulti il santo, perché si avvicina il premio.
Gioisca il peccatore, perché è invitato al perdono,
si rianimi
il pagano, perché è chiamato alla vita.”
San Leone Magno
Alle sette in punto siamo già fuori Estella, su cui veglia dall’alto la Basilica de Nuestra Senora del Puy, e caracolliamo per le vie della vicina Ayegui. Ci avviamo per una deviazione che allunga un poco, ma ne vale la pena perché incontriamo la prima delle due fonti della giornata. E’ del tutto particolare e famosa perché è una fonte, di Hirache (bodegas Irache), da cui zampilla…vino. Il tutto grazie ad un’importante azienda vinicola della zona che si fa pubblicità e che vuole allietare i passi dei pellegrini. Ci arriviamo che già altri ci hanno preceduti e si godono il piacevole nettare (un po’ acidulo) come colazione. Sopra il rubinetto si legge “Pellegrino, si quiete llegar a Santiago con fuerza e vitalidad, de este  gran vino echa un trago y brinda por la felicidad” (pellegrino se vuoi raggiungere Santiago con forza e vitalità, bevi un sorso di questo gran vino e brinda per la felicità).
Assaggiato il vino, pochi metri più avanti ci fermiamo per ammirare l’imponente monastero di Nuestra Senora Santa Maria La Real d’Irache, uno dei più importanti sul cammino. Nei suoi tempi d’oro fu pure sede dell’Università di Navarra, adesso è in stato di semiabbandono. Spesso questi luoghi di religiosità furono anche speciali Hospital per pellegrini che vi trovavano giovamento fisico e spirituale. Ne incontreremo altri cammin facendo, alcuni li abbiamo potuti visitare con l’utilizzo dell’automobile. Infatti, quando arrivavamo a destinazione, spesso se avanzavamo tempo, con i mezzi pubblici tornavamo a prendere la macchina per portarla più avanti e nel contempo sfruttavamo l’occasione per girare i dintorni. Come per il Monasteiro de Iranzu, a 10 km. da Estella. Per giungerci sembra di uscire dal mondo, isolato, al fondo di una forra, su una strada sempre più stretta che all’improvviso si apre su una valletta con al centro il monastero, non più abitato dai cistercensi, ormai solo attrazione storica che si può apprezzare, unitamente al museo che racconta la sua vita. Altro monastero che abbiamo potuto scoprire con l’automezzo è quello di San Millan  de la Cogolla, incastonato fra rocciosi pendii, dedicato alla memoria di San Emiliano eremita. Anzi, qui i monasteri sono due, quello superiore detto San Millan de Suso che sorse nelle grotte dove viveva l’eremita e quello costruito successivamente (XI secolo) più in basso chiamato San Millan de Yuso. Più avanti, alloggeremo presso il Monastero di Samos che avremo pure modo di visitare in largo e in lungo.
Ecco perché possiamo dire che siamo andati anche per monasteri. Viene da dire che se il cammino respira con due polmoni, il primo è lo snodarsi della traccia che porta a Santiago, quello della fisicità e della concretezza quotidiana per sopravvivervi, il secondo è quello dei monasteri, dove lo spirito trova pace e suggestioni per consolidare la fede e la propria dimensione religiosa. La citazione di San Gregorio Magno, in testa di capitolo, trova, quindi, sua giusta collocazione.
Tornando alla tappa odierna, l’ultima che si percorre in Navarra, ci portiamo avanti perché ci aspettano altre sorprese. Intanto la giornata si presenta limpidissima e quando arriviamo a Azqueta ci fermiamo per la colazione presso il bar del paese. E’ qui che veniamo a conoscenza di un uomo, Pablito, un ottantenne che passa il tempo realizzando bastoni per regalarli ai pellegrini che ne sono sprovvisti. Guai a non avere il bastone (il bordone) che serve per aiutarsi nella fatica e per difendersi (nei tempi antichi, da lupi e malfattori). Insieme alla zucca (l’arcaica borraccia), alla bisaccia (l’attuale zaino) , alla mantella e al cappello dalle larghe falde è l’armamentario del pellegrino doc.
Riprendiamo il passo con lo sguardo continuamente attratto dal profilo del Castello di Monjardin che è fuori dal percorso, il cui nome francese ricorda il passaggio di Carlo Magno che in questi luoghi fu presente in battaglie con i suoi paladini. Anche il sottostante paese di Villamayor de Monjardin è ricco di ricordi che rimandono a quelle gesta.
Il paesaggio è stupendo e così ci lustriamo gli occhi che godono anche della scoperta della seconda fonte della giornata, quella detta Fuente de Los Moros. Non è una classica “tromba”, è come una vasca, coperta, con l’ingresso a due archi e con una lieve scalinata in discesa, che crea un ambiente fresco, dove posson ben starci quattro cavalcature, lasciando immaginare, appunto, un riparo per uomini e animali, soprattutto quando l’afa e il caldo raggiungono picchi faticosamente insopportabili. L’acqua sembra limpida e pura, sembra perché non c’è molta luce, e si lascia tentare, ma è molto fredda, perciò, zaino in spalla, e avanti, in leggera salita per entrare a Villamayor, dove su una terrazzata che s’affaccia sulla piazza principale del paese, c’è un negozio di alimentari e ci facciamo una panino di quelli favolosi.
Ci carichiamo di acqua perché ci minacciano tredici chilometri di campagna, senza ombra e senza niente, prima di toccare le mura di Los Arcos, che, chissà perché, mi rimanda continuamente alla memoria dei fotogrammi del film Fort Alamo con John Wayne.
Tracce fra vigneti, estesi campi di frumento, già raccolto, piantagioni di asparagi e terrazzati oliveti: i colori sono ancora impressi nell’iride, sbiancati solo dalla strada sterrata, bianca e polverosa che in un saliscendi continuo, quasi senza accorgercene, ci conduce a Los Arcos sulla Calle Mayor che taglia fino all’altra estremità della cittadina ai piedi di un arco d’ingresso. E’ quest’opera architettonica, di classica fattura, come dire, “ispanica”, che mi rimanda all’arco di fort Alamo così come la scenografia filmica l’ha impresso nel mio immaginario.
Oltre l’arco che, insieme alle antiche mura, delimita la parte vecchia, c’è il rifugio comunale cui mollemente ci avviamo e sono le 13.30, il sole picchia maledettamente e l’ombra del portichetto dove siamo accolti da una gentile ospitaliera è molto ben gradita.
L’ostello è molto bello e ben tenuto, più o meno come quello di Estella. Ci sistemiamo ed il resto della domenica ci vede turisti per le vie, la chiesa, il chiostro, la piazza, il giardino davanti al rifugio, con i chiari e scuro del tardo pomeriggio ed il raccoglimento della Santa Messa preceduta dalla recita del Rosario in spagnolo. Scopriamo così che la preghiera dell’Ave Maria è guidata in modo inverso che da noi: la prima parte la declamano i fedeli, la seconda parte la guida. A proposito dei fedeli che partecipano alla Messa, assistiamo ad una seria aggregazione spirituale, segnata dal contegno e pure dalla cura del vestire, che si sbraga in modo significativo allo “scambio di un gesto di pace”: è tutto un baci e abbracci alla grande. Il classico estemporaneo temperamento bollente mediterraneo. Per ultimo, non trovando il “Menù del Dìa” perché domenica, scopriamo il rito della cena a base di “tapas”. Tutti attorno ai banconi, un continuo self-service che proprio non capiamo come facciano i gestori a seguire persona per persona ed è un caos di tortillas de patatas, gambas a la plancia, patatas bravas, chorizo e chi più ne ha più ne metta. Un sistema che, vedremo, prenderà piede anche da noi, con il giovanile successo dell’apericena nelle varie movida, anche della nostra città.   

Gaetano Mercorillo