….La campana, a dispetto di Hemingway, suonò molto presto per noi e già l’alba
ci trovò sul “ponte della rabbia”, che non era la nostra, non ne avevamo motivo,
ma così detto perché gli abitanti di Zubiri nei tempi antichi nel costruire il
ponte sul rio Arga rinvennero le spoglie di una giovane che emanava un soave e
delicato profumo; si trattava del corpo di Santa Quiteria che, stando alla
devozione popolare era potente protettrice dalla rabbia. Da allora si perpetua
la tradizione di far fare agli animali tre giri attorno al pilastro centrale per
guarire quelli malati e per preservare quelli sani dal flagello della rabbia.
La giornata si presenta piacevole e così pure il sentiero che si sviluppa
parallelo alla statale nr.135, ma in un continuo saliscendi che attraversa
boscaglie, fabbriche (una, proprio brutta, a cielo aperto di manganesio), e
piccoli campestri paesini con annessa chiesuola.
Anche se non ci sono botteghe, si può sempre trovare qualche volenterosa famiglia che propone il necessario per uno spuntino, caffè, latte, bibite, pane, frutta che permette loro di raggranellare qualcosa. Ne coglieremo l’occasione spesso e volentieri. Comunque, facciamo colazione a Larrasoana, locale proprio per pellegrini. In attesa delle immense brioches, leggo sul giornale di bordo, che ogni punto tappa che si rispetti non manca di avere, che il proprietario è “fuori come un balcone” e chissà perché, ma la cosa mi rimane impressa, forse per il doppio significato che ognuno può dare all’espressione senza, in fondo, offendere nessuno. Profonde riflessioni che sostanzialmente elaboro per evitare di constatare, con sommo sgomento, che non ce la facciamo già, proprio più, e le nostre schiene non ne vogliono più sapere di sopportare il peso degli zaini. Evidentemente avevamo sbagliato qualcosa nel caricarci di tutto e di più. Penosamente, arriviamo dove s’incrocia la statale e avendo conferma delle difficoltà che incombono, decidiamo di proseguire ai margini della stessa, costeggiando quasi sempre il rio Arga. La scelta era probabilmente condizionata da una riserva mentale che prevedeva, nel caso dell’aggravarsi della situazione, la possibilità di una pronta richiesta di soccorso o passaggio. Non ce ne fu bisogno perché, in fin dei conti, non ci abbattemmo del tutto e proseguimmo fino ad un’area di sosta, dove il tragitto marcato dalla freccia gialla indica un’impennata paurosa che al solo guardarla ci tagliava le gambe. Motivo per cui ci rinunciamo e andiamo avanti sempre su strada fino a quando troviamo l’indicazione dell’inizio di un parco fluviale. Prati spaziosi, panchine, percorso ginnico, gente varia che fa jogging, che va in bici, che passeggia, magari con un cane, come quel tizio che, lancia e rilancia il pezzo di legno al suo che, come si deve ad un bravo cane, puntualmente glielo riporta. E quando il legno cade vicino a noi, ci proviamo anche noi e funziona pure per noi perché, penso, ha capito che abbiamo nostalgia del nostro cagnone Kaos e… per consolarci della nostra desolante stanchezza.
Anche se non ci sono botteghe, si può sempre trovare qualche volenterosa famiglia che propone il necessario per uno spuntino, caffè, latte, bibite, pane, frutta che permette loro di raggranellare qualcosa. Ne coglieremo l’occasione spesso e volentieri. Comunque, facciamo colazione a Larrasoana, locale proprio per pellegrini. In attesa delle immense brioches, leggo sul giornale di bordo, che ogni punto tappa che si rispetti non manca di avere, che il proprietario è “fuori come un balcone” e chissà perché, ma la cosa mi rimane impressa, forse per il doppio significato che ognuno può dare all’espressione senza, in fondo, offendere nessuno. Profonde riflessioni che sostanzialmente elaboro per evitare di constatare, con sommo sgomento, che non ce la facciamo già, proprio più, e le nostre schiene non ne vogliono più sapere di sopportare il peso degli zaini. Evidentemente avevamo sbagliato qualcosa nel caricarci di tutto e di più. Penosamente, arriviamo dove s’incrocia la statale e avendo conferma delle difficoltà che incombono, decidiamo di proseguire ai margini della stessa, costeggiando quasi sempre il rio Arga. La scelta era probabilmente condizionata da una riserva mentale che prevedeva, nel caso dell’aggravarsi della situazione, la possibilità di una pronta richiesta di soccorso o passaggio. Non ce ne fu bisogno perché, in fin dei conti, non ci abbattemmo del tutto e proseguimmo fino ad un’area di sosta, dove il tragitto marcato dalla freccia gialla indica un’impennata paurosa che al solo guardarla ci tagliava le gambe. Motivo per cui ci rinunciamo e andiamo avanti sempre su strada fino a quando troviamo l’indicazione dell’inizio di un parco fluviale. Prati spaziosi, panchine, percorso ginnico, gente varia che fa jogging, che va in bici, che passeggia, magari con un cane, come quel tizio che, lancia e rilancia il pezzo di legno al suo che, come si deve ad un bravo cane, puntualmente glielo riporta. E quando il legno cade vicino a noi, ci proviamo anche noi e funziona pure per noi perché, penso, ha capito che abbiamo nostalgia del nostro cagnone Kaos e… per consolarci della nostra desolante stanchezza.
Comunque, questo parco, attraversando il paese di Trinidad de Arre, ci conduce
fino alla periferia di Pamplona, la prima delle grandi città del cammino.
Addentrarsi in sobborghi di città in corso di sviluppo urbanistico è come
trovarsi in una giungla di anonimi capannoni, supermercati, centri commerciali,
concessionarie, ed è sempre una pena, è un prezzo che il buon pellegrino deve
pagare a meno che non paghi un biglietto d’autobus e lo superi alla grande.
Anche noi fummo tentati, ma il nostro buon custode ci ha fatto incontrare solo
bus che andavano al deposito.
Stringendo i denti e riposandoci sempre più spesso ci avviciniamo alle mura
antiche di Pamplona e passando sul romanico ponte della “Maddalena” entriamo
nella cittadella per il Portal de France. Il primo bar che intravediamo diventa
nostro rifugio per fermarci e ristorarci e per valutare il da farsi. Infatti,
avevo già scoperto del perché mi facevano così male i reni, dove ben batteva il
peso dello zaino, causandomi proprio un’infiammazione urinaria di cui,
appartandomi per un improvvido bisogno, ebbi conferma notando il cambiamento di
colore, da giallo a marrone, del mio apporto liquido alla natura d’intorno.
Eravamo un po’ spaesati, incerti, finché non capitammo davanti alla stazione e
s’illuminò l’unica parte attiva della nostra cervice. Prendemmo un pullman e
tornammo a Roncesvalles dove avevamo l’automobile, non prima però di aver
assaporato le bellezze della città di San Saturnino.
Avviso ai miei 23 lettori: se posso descrivere un po’ la città, Irun in basco,
non è perché siamo improvvisamente rinati respirando l’aria calda delle “cinque
della sera”, bensì perché l’anno scorso con la banda dei dodici vi abbiamo fatto
un buon tour turistico.
La capitale della Navarra, Pamplona, dal generale romano Pompeo che la fondò, si
sviluppò proprio grazie ai flussi dei pellegrini durante il periodo d’oro dei
secoli XI-XIII. E’ bella e interessante, forse un poco trasandata nella parte
vecchia con tutti quei grossi cavi, elettrici e no, che corrono sulle facciate
delle case. Le vie strette e tortuose si aprono su piazze e slarghi
caratteristici e veicolano così le immagini della famosa corsa dei tori per le
strade bardate in occasione della festa di San Firmin. Si respira anche quel non
so che di suggestivo girando per luoghi, bar, plaze de toro, palazzi, chiese che
trattengono storie e romanzi hemingwaiani con corride sangue e arena. Per poi
immergersi nel sacro della cattedrale e del suo prezioso museo, cui è concesso
l’ingresso, a noi pellegrini, con tariffa agevolata, che non è bastata alla
Marisa e alla Eva perché per protesta non hanno voluto entrare e sottomettersi
alla religione a pagamento. Il patrimonio religioso è dei credenti e, perciò
hanno preferito, con coerenza, aspettarci fuori, anticipando la preghiera dei
vespri che, assieme alle lodi, sono i nostri appuntamenti giornalieri
comunitari. Quel giorno, abbiamo fatto sosta anche davanti al Santissimo, perché
abbiamo scoperto, nel nostro girovagare nella ricerca dell’artistico e
dell’originale, una piccola cappella, con davanti una statua di San Ignazio di
Loyola morente, dove 24ore su 24ore ci si può inginocchiare davanti a Gesù
eucaristico e pregarlo per le intenzioni più vere e sentite. E’ solo lì che
vengono esaudite, in quell’angolo di mondo, come in ogni altro luogo dove ci si
affida veramente alla sua Misericordia. E perché no’ anche a Vigevano?
Ritornando, invece, a noi, pellegrini non turisti, la giornata finisce a
Roncesvalles, alla cena dei pellegrini e alla ricerca di un alloggio,
accompagnati da un pensiero di un grande spagnolo, San Josemaria Escrivà, tratto
dal suo libro “Cammino”:
“ dalla vetta, dovunque si guardi, ed è un raggio di molti chilometri, non si
vede una pianura: dietro ogni montagna, un’altra montagna. Se in qualche punto
il paesaggio sembra addolcirsi, all’alzarsi della nebbia ecco ancora una catena
di monti che era dietro celata. Così è e così deve essere l’orizzonte: bisogna
attraversare il mondo. Ma non ci sono vie tracciate solo per voi…le traccerete,
attraverso le montagne e le valli, col battere dei vostri passi”.
E lo stiamo proprio sperimentando. L’alloggio lo trovammo, una bella camera
presso una famiglia di Burguete, dove dimezzammo il contenuto degli zaini e dove
persi una delle mie protesi acustiche per la disperazione della Mariella, cui
non bastavano le difficoltà del cammino, ma doveva oltretutto farlo con un mezzo
sordo. Sopravvisse comunque.