LA PATRIA DI GESU’

XIVa Domenica T.O. (Anno B)

un profeta non è disprezzato se non nella sua patria  

Quindi Gesù veniva deriso e sostanzialmente rifiutato proprio nel paese dove è cresciuto. Chi lo conosce è incredulo a riconoscerlo come il Servo di Dio, neppure come un profeta. Eppure lo avrebbero già potuto apprezzare, grazie ai prodigi compiuti nei villaggi vicini, grazie alla fama che lo accompagnava, grazie alla profondità delle sue catechesi sulla Parola che veniva proclamata nelle sinagoghe. Lui, però, non si scompone: “… un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua.”   (dal Vangelo secondo Marco)

Mi viene, allora, voglia di verificare come reagiremmo noi se Gesù venisse a farci l’omelia nelle nostre chiese. Oggi, dove è sempre meno al centro delle celebrazioni, dove si travisa la sua origine, - è il figlio di Dio o è solo un suo profeta? – è un rivoluzionario cui è non è andato bene il finale o è il Redentore e Salvatore di ciascuno di noi? Eppure il suo Vangelo è ben chiaro e per confermarlo è morto e resuscitato. Per questo, a distanza di secoli, anche noi stiamo a domandarci chi è Gesù. A verificare, interiormente, se almeno non debba andarsene da casa mia, dalla nostra città. Cioè, se sono disposto ad accoglierlo in modo indiscusso, pronto a testimoniarlo fino al martirio, come i primi cristiani che non dubitavano di:“… a te alzo i miei occhi, a te che siedi nei cieli.” (dal Salmo)
Abbiamo perso da tempo questa posizione nelle liturgie, quasi a conferma di una fondamentale sfiducia nell’intervento del Buon Dio nelle faccende degli uomini. Siamo, spesso, come Pilato, che chiese a Gesù cos’è la verità e poi cerchiamo la risposta nelle argomentazioni degli uomini che ci tengono prigionieri con il loro potere e le loro invenzioni, per distoglierci dalla luce del cielo, quella del Padre che illumina tutte le cose con la luce del suo amore. Noi usiamo, invece, luci false, quelle dell’invidia, dell’impurità, della vanagloria e dell’orgoglio. Un po’ come Israele al tempo del profeta Ezechiele: “… tu dirai loro: “Dice il Signore”. Ascoltino o non ascoltino, dal momento che sono una genia di ribelli, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro.”
C’è da sperare, allora, che si alzi un profeta anche in questa genia, non di ribelli, ma di melliflui, indifferenti. So bene che occorre un bel coraggio, che la paura, l’umiltà, l’essere discriminati frenano ogni buona intenzione, ma se chiama il Signore non c’è debolezza che tenga: “… mi vanterò, quindi, ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo … infatti quando sono debole, è allora che sono forte.” (dalla seconda Lettera di San Paolo ai Corinzi)
E’ così che si trova ciascuno di noi? Nella propria debolezza, e sappiamo bene quanto incide nelle nostre vicende personali, riscontriamo, però, nella fede, la forza per continuare a vivere, per affrontare malattie, mancanza dei propri cari, difficoltà economiche e sociali.
E’ in questo modo che offriamo a Gesù una nuova Patria, la nostra casa, la nostra città, che ritorneranno a rispettarlo, a rispettarci perché Gesù è la nostra vita.
Lui ci tiene per mano, ci dona i segni del suo amore che ci tengono in piedi, a testa alta, come sentinelle.
Compito che ci viene affidato per poter servire il Signore stesso e i nostri fratelli nella fede, garantendoci, come dice San Paolo, gli strumenti e la forza per compierlo.

Ez 2,2-5 / Sal 122 / 2Cor 12,7-10 / Mc 6,1-6
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