VII Domenica
T.O. (Anno A)
“Credo in te, o Padre; tu hai posto nei nostri cuori
il desiderio di cercarti, la pazienza di aspettarti, la gioia di riconoscerti,
la forza di sentire il tuo silenzio.” (Alcuni studenti di nostra Signora di
Chartres). Per aspirare a diventare monaco bisogna proprio che in sé si senta
quasi fisicamente la presenza del Signore, come se Lui avesse deciso di abitare
nel proprio cuore, nella propria mente. Dopo tutto, però, anche San Paolo lo
ricordava ai Corinti:
“…non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito
di Dio abita in voi?” (dalla prima Lettera ai Corinti)
Di sicuro avviene per ciascuno di noi ogni qual volta
ci accostiamo alla Comunione. Che responsabilità! Diveniamo tabernacoli
viventi, siamo ad un passo dall’eternità, comprendiamo che abbiamo in noi
un’energia del tutto diversa che ci fa intravedere un traguardo cui non importa
arrivare primi, ma giungerci in perfetta grazia di Dio. Ripensiamo, infatti,
alla nostra vita e conveniamo con il Salmo:
“…l’uomo: come l’erba sono i suoi giorni! Come un
fiore di campo, così egli fiorisce. Se un vento lo investe, non è più, né più
lo riconosce la sua dimora.”
E’ certo che se guardiamo solo alla nostra forza, alla
nostra bellezza, a quanto siamo bravi e capaci, al come siamo arrivati in
carriera, in società, in politica, nella finanza, allora ci accadrà proprio di
non accorgerci che siamo finiti, siamo come quei fiori. Ecco, anche il nostro
corpo mai più ci aiuterà, non sarà più nostro, e, addirittura, accostarci alla
Comunione in quello stato sarà la nostra completa rovina. Su questo non ci
piove. Bisogna, quindi, sempre essere tanto umili da saperci interrogare
continuamente sul nostro stato di vita, al di là di ogni buona intenzione. Il
Libro del Levitico invita ad essere schietti e chiari:
“…rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti
caricherai di un peccato per lui.”
Ma io dico che ancor prima bisogna ammettere, in foro
interiore, il proprio peccato, ed avere il coraggio di confessarlo. Poi,
certamente, non ci si può esimere dal gridare
pubblicamente ciò che è male, ciò che è contro la legge di Dio. Lasciare od
accettare anche il male minore, è un peccato che ricadrà su di noi. Già così
avviene quando vediamo che questa società in cui viviamo continua a trascinarci
sempre più in basso, verso un inferno dove milioni di persone si dibattono
senza speranze, dove milioni di bambini sono condannati, innocenti, alla non
nascita. Di fronte a questa visione, alle cronache di tutti i giorni che ci
spingono alla contrapposizione, ci sovviene, però, il Vangelo di Matteo:
“…ma io vi dico amate i vostri nemici e pregate per
quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei
cieli.”
Non so quanti di noi sentono di avere nemici, ed è
forse questo il problema perché potrebbe essere un sintomo dell’assuefazione al
peccato che stravolge il comune vivere. Qui in Italia non ci siamo forse
assuefatti ad una legge come quella che ha legalizzato l’aborto? Non ci siamo forse
adeguati ad una trasformazione del concetto di famiglia a favore di evanescenti
famiglie? Appena, però, qualcuno di noi alza la voce, come dovrebbe (vedi il
Levitico) ecco allora che subito diventa lui stesso il nemico e come tale va
schiacciato, combattuto, ridotto all’angolo o, se va bene, nelle sacrestie. Ma
siamo figli di Dio, cioè dimoriamo in Lui ed ecco perché amiamo, nonostante
tutto, e siamo in grado di pregare per coloro che peccano contro l’uomo e
contro Dio.
Lv 19,1-2.17-18 / Sal 102(103) / 1Cor 3,16-23 / Mt
5,38-48
digiemme