2 agosto 2017

FONCEBADON – PONFERRADA Venerdì 6 Agosto 2010 XXII tappa

A proposito dei Cavalieri Templari:
“ E’ difficile distinguere i fatti reali dalla leggenda…Non ho
riscontrato unanimità su cosa siano i fatti reali: dipende dai
punti vista. La cosa interessante è che la leggenda, che per
definizione è distorta, dà una versione degli eventi di gran
lunga più accettabile. Tutti si trovano d’accordo sulla leggenda,
ma nessuno si trova d’accordo sui fatti.” (Michael Coney)
Alle 6,30 quando siamo fuori dal rifugio, al buio, sappiamo già dove dobbiamo indirizzarci, basta seguire le filtranti luci delle pile di chi ha iniziato a camminare prima di noi. L’aria è fredda, il vapore si condensa nei nostri respiri e il monte Irago s’intravede in chiaro scuro. Sotto questo monte, ben presto, alla luce del sole che piana sui bassi arbusti di un ampio prato, giungiamo al cospetto della famosa “Croce di Ferro”, la “Cruz de Hierro”, punto nodale del pellegrinaggio.
Siamo a 1504mt slm, non c’è molta gente, alla destra dell’alto palo di legno sulla cui cima è fissata una croce di ferro, c’è una piccola cappella. Attorno ci sono mucche al pascolo, steccionate e piccoli boschi di abeti: l’ambiente è veramente bucolico, ma l’attenzione è concentrata sulla montagnola di sassi da cui spunta la “cruz”. Ci si arrampica su questo pendio di variegati ciottoli che i pellegrini lasciano lì come pegno della loro vita o come liberazione dei propri pesi interiori.
Da quando l’eremita Gaucelmo, nei tempi antichi, probabilmente su un altare dedicato al dio Mercurio, ha impiantato questa croce, questo luogo è diventato spiritualmente importante, assumendo, negli anni, un significato catartico, quasi a liberazione di propositi, sacrifici, intenzioni. Molti si portano la pietra o l’oggetto scelto (una lettera, un fazzoletto) fin dalla partenza da casa, altri la raccolgano durante il tragitto. Noi non abbiamo materialmente lasciato nulla, perché i nostri fardelli, le nostre intenzioni vogliamo portarli con noi fino alla tomba del Santo. Ci sentiamo, però, di partecipare, in mutua e silenziosa preghiera, con tutta l’umanità che si accosta e si sovrappone ai piedi di questa croce.
Sereni, riprendiamo la strada per giungere, dopo una serie di sali e scendi, al punto più alto di tutto il cammino (1517mt) dove una magnifica statua al pellegrino ben rende l’idea del vento che soffia continuamente su questi monti. Poco più avanti s’intravedono alcuni ruderi di quello che una volta era l’abitato di Majarin. Ora c’è solo un isolato rifugio che attira l’attenzione per l’originale e colorato cartello segnaletico verso le vie del mondo, indicante i chilometri mancati a Santiago (222), ma anche quelli a Roma, piuttosto che a Gerusalemme. El Refujo de Manjarin è tenuto aperto da un paio di persone che portano una casacca con la rossa croce dei Templari. Il fabbricato è messo alla bellemeglio, quasi come una casotta delle nostre a Ticino. Entrando si respira un’aria di altri tempi, arredo, oggetti e documenti che rimandano all’epopea dei Cavalieri. Si vede che offrono ospitalità povera e credo proprio che anche questo posto contribuisca al misterioso fascino che avvolge i camminatori.
La pausa serve anche per riposarsi e farsi un caffè, perché sappiamo che ci aspetta una discesa mica da ridere. Infatti, dopo un’altra ora di picchiata le ginocchia schioccano in malo modo, per fortuna che s’intravedono i tetti di Acebo, caratteristico paesino che ci ricorda di essere entrati nella regione del Bierzo, anticamera della Galizia. All’inizio dell’unica strada “real” c’è un bar, affollato, che non può essere bypassato. La colazione è sostanziosa e, purtroppo, ben presto si deve riprendere. All’uscita del paese un monumento ad un pellegrino morto per un incidente in bicicletta, ci ammonisce sulle nostre sicurezze. Altra discesa, altri spacca gambe e sento che si è aperta una vescica al piede destro.
Il paese di Riejo De Ambros si fa notare per la sua Ermita di San Sebastian che un anziano signore seduto davanti alla porta c’invita a visitare. Una buona occasione per una preghiera come di deve e via nella spericolata discesa verso Molinasecca. Veramente scendiamo velocemente e già all’imbocco della valle vediamo il paese, passiamo davanti all’isolato Santuario “De la Virgen de Las Angustias” e subito dopo solchiamo il bellissimo ponte sul Rio Meruelo che immette sulla via “real” di Molinasecca. Sono già quasi le 11,00, il sole comincia a picchiare, il piede mi fa male. Ci fermiamo presso una bottega, acquistiamo due panini e scopriamo che sono lunghi due metri, ci serviranno anche come pranzo, e ci facciamo due favolose birre. Constato la dimensione della vescica, Mariella la medica e, gioco forza, ripartiamo, io zoppicando. Sotto il sole, le ultime due ore sono faticose, s’intravedono le mura del castello di Ponferrada, sembra vicina, ma abbiamo bisogno di un’altra sosta. Il proprietario del bar, quando gli chiediamo da bere, aggiunge anche un ben di Dio di “tapas”. Non dovevamo avere un bell’aspetto.
Anche alla ragazza che ci viene incontro all’ingresso del rifugio di Ponferrada si accorge che non siamo sistemati bene e subito ci offre una bella caraffa fresca di aranciata. Migliore accoglienza non potevamo aspettarci. C’è un sacco di gente, dobbiamo metterci in fila per iscriverci, ma non ci dispiace perché siamo all’ombra e perché al centro del cortile c’è una bella vasca dove poter immergere i martoriati piedi. Il rifugio è molto grande e noi capitiamo in un’ampia camerata con letti a castello. Ci riposiamo e solo dopo provvediamo alla pulizia del corpo e degli indumenti. Ci sono tutti i servizi, anche una bella cappella: sembra che la gestione di questo albergue sia un mix fra comune e parrocchia e riesce molto bene. L’unico neo è che si trova alla periferia della città, che è la più importante del Bierzo, motivo per cui, ancora gambe in spalla se si vuole visitare il centro storico. Così abbiamo fatto e ne è valsa proprio la pena. Il castello dei Templari l’abbiamo ammirato solo dall’esterno, anche perché di significativo sono rimasti solo i bastioni, enormi, che danno l’idea dell’importanza strategica e funzionale alla protezione dei pellegrini da parte del potente ordine cavalleresco. Attorno si sviluppa tutto il centro con la piazza grande e la basilica di Nuestra Senora de la Encina. E così detta perché in questo luogo la Madonna è apparsa ai Templari fra i rami di una quercia (encina), a conferma del gradimento del loro operato.
In chiesa alcune donne stavano facendo le pulizie, ma questo non ci ha distolto dalla recita del Rosario: si stava bene in quel fresco e, successivamente al termine dei mestieri delle volontarie, in quel silenzio che t’avvolgeva e ispirava a buone intenzioni.
Fuori, invece, faceva un caldo bestiale, ma era presto per cercare un ristorante, perciò la nostra attenzione fu attirata da quattro o cinque bambini che giocavano con le fontane d’acqua al centro della piazza: avete presente spruzzi che schizzano alti e meno alti ad intervalli irregolari dalla pavimentazione, senza delimitazioni di sorta, solo s’intravedono i fori e si capisce l’area su cui ricadono i zampilli. Ebbene, soprattutto un bambino di 4/5 anni era uno spettacolo e i suoi genitori lo lasciavano fare e si divertivano per lui. E pure noi.
La siesta che ci eravamo presi continuò con lo scambio d’informazioni con una pellegrina italiana che arrivò in piazza in bicicletta. Tipa simpatica e sprint che, ci raccontò, alternava le tappe a piedi e in bicicletta, quando trovava da affittarla. Il mondo è bello perché è vario, anche sul cammino.
Volevamo, poi, ammirare il vecchio ponte di ferro, costruito nel 1082 per saltare la profondità del rio Sil, che, in seguito diede, comunque, il nome alla città di Pon(Ponte)ferrada(di ferro), ma si era fatto tardi e la ricerca del menù del pellegrino non aveva dato buoni risultati. Ci siamo accontentati di un piccolo locale, tipo food da asporto, che ci ha consolato con una buona empanada. Niente di speciale, quindi, per un giorno speciale  che stava per finire, lasciandoci soddisfatti per l’impresa riuscita e contenti per le emozioni che abbiamo avuto modo di vivere.
In rifugio, nelle camerate la luce veniva spenta alle 10,00, ma la nottata si preannunciava calda e afosa, perciò era più la gente fuori in cortile o per strada a chiacchierare, ridere, scherzare, cantare, giocare in un simpatico e contagioso clima di cameratismo senza frontiere. Finché il sonno non la vinse.