“ E’ difficile distinguere i fatti reali dalla
leggenda…Non ho
riscontrato unanimità su cosa siano i fatti reali:
dipende dai
punti vista. La cosa interessante è che la leggenda,
che per
definizione è distorta, dà una versione degli eventi
di gran
lunga più accettabile. Tutti si trovano d’accordo
sulla leggenda,
ma nessuno si trova d’accordo sui fatti.” (Michael
Coney)
Alle 6,30 quando siamo fuori dal rifugio, al buio, sappiamo già dove dobbiamo
indirizzarci, basta seguire le filtranti luci delle pile di chi ha iniziato a
camminare prima di noi. L’aria è fredda, il vapore si condensa nei nostri
respiri e il monte Irago s’intravede in chiaro scuro. Sotto questo monte, ben
presto, alla luce del sole che piana sui bassi arbusti di un ampio prato,
giungiamo al cospetto della famosa “Croce di Ferro”, la “Cruz de Hierro”, punto
nodale del pellegrinaggio.
Siamo a 1504mt slm, non c’è molta gente, alla destra dell’alto palo di legno
sulla cui cima è fissata una croce di ferro, c’è una piccola cappella. Attorno
ci sono mucche al pascolo, steccionate e piccoli boschi di abeti: l’ambiente è
veramente bucolico, ma l’attenzione è concentrata sulla montagnola di sassi da
cui spunta la “cruz”. Ci si arrampica su questo pendio di variegati ciottoli che
i pellegrini lasciano lì come pegno della loro vita o come liberazione dei
propri pesi interiori.
Da quando l’eremita Gaucelmo, nei tempi antichi, probabilmente su un altare
dedicato al dio Mercurio, ha impiantato questa croce, questo luogo è diventato
spiritualmente importante, assumendo, negli anni, un significato catartico,
quasi a liberazione di propositi, sacrifici, intenzioni. Molti si portano la
pietra o l’oggetto scelto (una lettera, un fazzoletto) fin dalla partenza da
casa, altri la raccolgano durante il tragitto. Noi non abbiamo materialmente
lasciato nulla, perché i nostri fardelli, le nostre intenzioni vogliamo portarli
con noi fino alla tomba del Santo. Ci sentiamo, però, di partecipare, in mutua e
silenziosa preghiera, con tutta l’umanità che si accosta e si sovrappone ai
piedi di questa croce.
Sereni, riprendiamo la strada per giungere, dopo una serie di sali e scendi, al
punto più alto di tutto il cammino (1517mt) dove una magnifica statua al
pellegrino ben rende l’idea del vento che soffia continuamente su questi monti.
Poco più avanti s’intravedono alcuni ruderi di quello che una volta era
l’abitato di Majarin. Ora c’è solo un isolato rifugio che attira l’attenzione
per l’originale e colorato cartello segnaletico verso le vie del mondo,
indicante i chilometri mancati a Santiago (222), ma anche quelli a Roma,
piuttosto che a Gerusalemme. El Refujo de Manjarin è tenuto aperto da un paio di
persone che portano una casacca con la rossa croce dei Templari. Il fabbricato è
messo alla bellemeglio, quasi come una casotta delle nostre a Ticino. Entrando
si respira un’aria di altri tempi, arredo, oggetti e documenti che rimandano
all’epopea dei Cavalieri. Si vede che offrono ospitalità povera e credo proprio
che anche questo posto contribuisca al misterioso fascino che avvolge i
camminatori.
La pausa serve anche per riposarsi e farsi un caffè, perché sappiamo che ci
aspetta una discesa mica da ridere. Infatti, dopo un’altra ora di picchiata le
ginocchia schioccano in malo modo, per fortuna che s’intravedono i tetti di
Acebo, caratteristico paesino che ci ricorda di essere entrati nella regione del
Bierzo, anticamera della Galizia. All’inizio dell’unica strada “real” c’è un
bar, affollato, che non può essere bypassato. La colazione è sostanziosa e,
purtroppo, ben presto si deve riprendere. All’uscita del paese un monumento ad
un pellegrino morto per un incidente in bicicletta, ci ammonisce sulle nostre
sicurezze. Altra discesa, altri spacca gambe e sento che si è aperta una vescica
al piede destro.
Il paese di Riejo De Ambros si fa notare per la sua Ermita di San Sebastian che
un anziano signore seduto davanti alla porta c’invita a visitare. Una buona
occasione per una preghiera come di deve e via nella spericolata discesa verso
Molinasecca. Veramente scendiamo velocemente e già all’imbocco della valle
vediamo il paese, passiamo davanti all’isolato Santuario “De la Virgen de Las
Angustias” e subito dopo solchiamo il bellissimo ponte sul Rio Meruelo che
immette sulla via “real” di Molinasecca. Sono già quasi le 11,00, il sole
comincia a picchiare, il piede mi fa male. Ci fermiamo presso una bottega,
acquistiamo due panini e scopriamo che sono lunghi due metri, ci serviranno
anche come pranzo, e ci facciamo due favolose birre. Constato la dimensione
della vescica, Mariella la medica e, gioco forza, ripartiamo, io zoppicando.
Sotto il sole, le ultime due ore sono faticose, s’intravedono le mura del
castello di Ponferrada, sembra vicina, ma abbiamo bisogno di un’altra sosta. Il
proprietario del bar, quando gli chiediamo da bere, aggiunge anche un ben di Dio
di “tapas”. Non dovevamo avere un bell’aspetto.
Anche alla ragazza che ci viene incontro all’ingresso del rifugio di Ponferrada
si accorge che non siamo sistemati bene e subito ci offre una bella caraffa
fresca di aranciata. Migliore accoglienza non potevamo aspettarci. C’è un sacco
di gente, dobbiamo metterci in fila per iscriverci, ma non ci dispiace perché
siamo all’ombra e perché al centro del cortile c’è una bella vasca dove poter
immergere i martoriati piedi. Il rifugio è molto grande e noi capitiamo in
un’ampia camerata con letti a castello. Ci riposiamo e solo dopo provvediamo
alla pulizia del corpo e degli indumenti. Ci sono tutti i servizi, anche una
bella cappella: sembra che la gestione di questo albergue sia un mix fra comune
e parrocchia e riesce molto bene. L’unico neo è che si trova alla periferia
della città, che è la più importante del Bierzo, motivo per cui, ancora gambe in
spalla se si vuole visitare il centro storico. Così abbiamo fatto e ne è valsa
proprio la pena. Il castello dei Templari l’abbiamo ammirato solo dall’esterno,
anche perché di significativo sono rimasti solo i bastioni, enormi, che danno
l’idea dell’importanza strategica e funzionale alla protezione dei pellegrini da
parte del potente ordine cavalleresco. Attorno si sviluppa tutto il centro con
la piazza grande e la basilica di Nuestra Senora de la Encina. E così detta
perché in questo luogo la Madonna è apparsa ai Templari fra i rami di una
quercia (encina), a conferma del gradimento del loro operato.
In chiesa alcune donne stavano facendo le pulizie, ma questo non ci ha distolto
dalla recita del Rosario: si stava bene in quel fresco e, successivamente al
termine dei mestieri delle volontarie, in quel silenzio che t’avvolgeva e
ispirava a buone intenzioni.
Fuori, invece, faceva un caldo bestiale, ma era presto per cercare un
ristorante, perciò la nostra attenzione fu attirata da quattro o cinque bambini
che giocavano con le fontane d’acqua al centro della piazza: avete presente
spruzzi che schizzano alti e meno alti ad intervalli irregolari dalla
pavimentazione, senza delimitazioni di sorta, solo s’intravedono i fori e si
capisce l’area su cui ricadono i zampilli. Ebbene, soprattutto un bambino di 4/5
anni era uno spettacolo e i suoi genitori lo lasciavano fare e si divertivano
per lui. E pure noi.
La siesta che ci eravamo presi continuò con lo scambio d’informazioni con una
pellegrina italiana che arrivò in piazza in bicicletta. Tipa simpatica e sprint
che, ci raccontò, alternava le tappe a piedi e in bicicletta, quando trovava da
affittarla. Il mondo è bello perché è vario, anche sul cammino.
Volevamo, poi, ammirare il vecchio ponte di ferro, costruito nel 1082 per
saltare la profondità del rio Sil, che, in seguito diede, comunque, il nome alla
città di Pon(Ponte)ferrada(di ferro), ma si era fatto tardi e la ricerca del
menù del pellegrino non aveva dato buoni risultati. Ci siamo accontentati di un
piccolo locale, tipo food da asporto, che ci ha consolato con una buona
empanada. Niente di speciale, quindi, per un giorno speciale
che stava per finire, lasciandoci soddisfatti per l’impresa riuscita e
contenti per le emozioni che abbiamo avuto modo di vivere.
In rifugio, nelle camerate la luce veniva spenta alle 10,00, ma la nottata si
preannunciava calda e afosa, perciò era più la gente fuori in cortile o per
strada a chiacchierare, ridere, scherzare, cantare, giocare in un simpatico e
contagioso clima di cameratismo senza frontiere. Finché il sonno non la vinse.