“Mentre trascorre la vita,
solo tu non sei mai,
Santa Maria del Cammino
sempre sarà con te…”
Santa Maria del Cammino è un canto nato su queste strade con i pellegrini. Ce
l’ho in testa quando lasciamo Ponferrada alle 6,15 di una giornata che sembra
presentarsi calda, seppur, sulla carta, facile. Non ci siamo accorti d’esser
passati sul famoso vecchio ponte di ferro e, per certi versi, neppure ci
accorgiamo dell’attraversamento dei paesini che incontriamo. Solo mi resta
impresso Huerta del Sacramento che mi porta ad una riflessione. In Spagna la
religiosità si misura anche dai nomi che vengono dati ai paesi e spesso, come
questo, c’è proprio un richiamo diretto al Mistero della fede in Cristo Gesù.
Pare, allora, incomprensibile l’odio contro la Chiesa Cattolica che si è
accanito durante la guerra civile degli anni ’30 con persecuzioni, uccisioni e
stragi di preti, religiosi e laici. L’ideologia, quando degenera, evidentemente,
acceca le coscienze e distrugge il buon senso.
E mentre riflettevo su queste cose, altri nomi come Columbrianos, Fuentes Nevas,
Camponaraja ci permettevano di scoprire una zona ad alta densità rurale, fatta
di fattorie, di vigneti e di mandrie al pascolo.
Invece, quando ci avviciniamo al successivo paese, mi viene da ridere, pensando
alla consueta stitichezza di Mariella, perché il borgo si chiama Cacabelos.
In realtà si tratta di una cittadina di una certa importanza, con un bel centro
storico che ci invita ad una sosta per la una ricarica nutrizionale. Noi
prendiamo il solito mega panino,
mentre una coppia di giovani francesi si porta una bottiglia di vino al tavolo
in attesa di un bel piatto di pasta. Il ragazzo aveva bisogno di sostenersi, a
sentirli, perché un ginocchio lo metteva in difficoltà. Quindi sosta lunga senza
preoccupazioni per l’alloggiamento in quanto viaggiavano con tenda appresso.
Noi, invece, vorremmo arrivare a destinazione quanto prima perché abbiamo
intenzione di fermarci presso il refugio di Jesus Jato. Ci rimane solo l’ultimo
tragitto che, pensavamo, sarebbe stato assorbito in un attimo e, invece, si
rivelò sfiancante ed insopportabile. Era tutto un sali- scendi, peggio delle
montagne russe. Vero che il paesaggio era molto bello, vero che ogni angolo ci
regalava nuove, come quella casa, isolata, il cui garage era trasformato in un
bar d’occasione dall’allegra anzianotta proprietaria, vero che si restava
meravigliati dagli “horreo” i famosi silos per granoturco che tanto ricordano
gli altarini induisti, ma a tutto c’è un limite e ad ogni piccolo scollinamento
speravamo “caldamente” di intravedere il cartello di Villafranca. E, finalmente,
alle 13.15 ci arrivammo. Subito all’ingresso del paese c’è il rifugio comunale,
ma noi, come già detto, volevamo giungere alla casa “Ave Fenix” della famiglia
Jato. Sapevamo di questo personaggio, amico del Cammino e dei pellegrini, che ha
modulato la sua vita in chiave “cammino” nello spirito e nel concreto,
trasformando la sua casa, nel tempo, in un vero e proprio funzionale ostello.
L’ambiente è rustico, una specie di cascinale, dove ogni piccolo spazio è utile
all’ospitalità. Ci capita una piccola stanza, una specie di mansarda, da
condividere con altri 6 pellegrini, le docce sono funzionali e gli spazi aperti
sono curati per il riposo e la compagnia. L’accesso comprende anche la cena e la
prima colazione. A sera, attorno alla tavolata siamo una “mega”, fra cui anche
due giovani donne di Monza e, sorpresa, la cena è a “cucina italiana” in quanto
il cuoco è italiano. Un tizio che, in pellegrinaggio, aveva finito le risorse
economiche e si è proposto in questa mansione, al punto che, innamoratosi del
luogo, vi ha messo, temporaneamente, radici. Ne abbiamo piacevolmente
approfittato, godendoci le notevoli capacità culinarie. Nel pomeriggio, invece,
ci siamo goduti la città, decisamente interessante dal punto di vista storico ed
urbanistico: il castello, un centro storico incastonato nella stretta valle
segnata dal fiume, quattro chiese, una più bella dell’altra. Di due bisogna
proprio scriverne. Quella, intitolata a Santiago, di stile romanico, con una
sola navata, è famosa per lo splendido portale, chiamato “Puerta del Perdon”
perché il Papa Callisto III conferì il privilegio dell’indulgenza a tutti i
pellegrini che, ammalati o moribondi, non potendo arrivare a Compostela, si
fermavano qui e passavano sotto la porta suddetta, definita proprio per questo
“del perdono”.
La seconda è, invece, la Chiesa di San Francesco che visitiamo, dopo aver
ripreso fiato, perché, dominante sulla città, ci si arriva affrontando una
scalinata taglia-gambe. Ci aspetta un incontro inaspettato. Percorriamo l’unica
navata, lunga e alta, semplici pareti di pietre antiche che giocano con luci e
ombre che ci portano sul presbiterio dove alla nostra sinistra c’è una statua, a
grandezza naturale, di una Madonna “incinta”.
Ci spiazza, di bella fattezza antica, non ne avevamo mai visto. Chiediamo
informazioni alla signora che sta all’ingresso della chiesa per accogliere i
visitatori: è felice di spiegarci (in spagnolo) devozione e storia per questa
“Virgen dell’ “O”. Ci dona una fotografia con la quale riusciamo a capire che
tale appellativo nasce dalla meraviglia per una “attesa” che si può esprimere
nella preghiera in preparazione al Natale: tutte le prime antifone della novena
di Natale iniziano infatti con la “O”. Perciò, quella Madonna “incinta”, in
cammino verso il Natale di nostro Signore, la tradizione, nel tempo e,
soprattutto, il popolo, nella semplicità di fede, ha pensato di appellarla con
l’espressione tipica della sorpresa e della meraviglia. Un po’ quello che è
successo anche a noi quando l’abbiamo incontrata. Che giornata!
Dopo cena, ci sediamo su una panchina di pietra, le schiene appoggiate alle
pietre calde del “refugio”, e assaporiamo la sera che scende, i colori che si
attenuano, cullati dal vociare dei pellegrini che vanno e vengono. Anche il buon
Jesus capisce la nostra beatitudine e viene a salutarci con una forte presa alle
spalle. Non una parola, non occorre, è il suo augurio per una buona notte ed un
“buen camino”.