“Quale gioia quando mi dissero: andremo alla casa di..Giacomo! Già sono fermi i
nostri piedi alle tue porte…Santiago de Compostela”
Richiamo il Salmo 122, sostituendo Gerusalemme con la città dell’apostolo,
perché così mi sono sentito quando siamo entrati in Plaza do Obradoiro, al
cospetto del Portico della Gloria.
In quell’istante, io e Mariella abbiamo capito che dovevamo tornarci solo dopo
aver percorso tutto il cammino, non solo i chilometri necessari per la
“Compostela”.
Così decidemmo di tornare sui nostri passi ed esattamente un anno dopo ci
troviamo, io e Mariella, davanti al cartello stradale che avvisa in termini
numerici “780 Km. a Santiago de Compostela”.
La nostra macchina è parcheggiata, per ritornare a prenderla alla fine del
nostro programmato “primo tempo” di cammino. Infatti, abbiamo pensato di
percorrere tutto il cammino in tre anni, spaccandolo in tre parti, con
ripartenze intermedie da Santo Domingo de la Calzada e da Astorga.
Eccoci, quindi, al primo tratto, alle nostre spalle i monti di Roncesvalles ben
camuffati da una uggiosa foschia.
Questa volta gli zaini sono ben carichi e ci piegano la schiena che è un
“piacere”, si fa per dire. Una foto a testimonianza futura sotto il cartello
e…via per il sentiero che subito s’inoltra in un bosco in leggera discesa che ci
fa prendere un passo leggero e cadenzato.
In breve ci troviamo a Burquete dove è doverosa una sostanziosa colazione. E’ un
paese tipico di montagna, ricorda molto uno dei nostri valsesiani: le case in
pietra, una chiesa accogliente nella sua antica semplicità, con un bel sagrato.
Qui recitiamo le lodi e ben corroborati nel corpo e nello spirito, ci
apprestiamo ad affrontare il primo “Alto” della giornata.
Notiamo già un buon affollamento di pellegrini a piedi e in bicicletta: per
tutti “buen camino” oppure “hola”. Anche le lingue si diversificano, dagli
italiani in bici, alla coppia “strana” di francesi, come pure quella, avanti in
età, sordo-muti, di cui, visto le innumerevoli fermate per riprendere fiato, ci
domandavamo quando sarebbero giunti a destinazione.
Ognuno, comunque, ha il suo passo e guai a tradirlo: la fretta, la competizione,
l’ansia del dopo curva, non dovrebbero avere cittadinanza sul cammino. Perché la
stanchezza non tarda poi molto a fiaccare i muscoli delle gambe e della schiena.
Più ci allontaniamo dai Pirenei, più
si schiarisce il cielo, la mattinata è fresca e camminiamo abbastanza
bene che quasi non ci accorgiamo di essere giunti all’Alto de Mezkiritz, dove
sostiamo presso una lapide in pietra che ricorda la Vergine di Roncesvalles.
Poi, però, dopo la sosta per il pranzo, il sole picchia sempre più e lo strappo
che porta al secondo “Alto” è tremendo e ci taglia le gambe. Mariella dice,
nell’ordine: mi fanno male i piedi, ho i crampi alle gambe, le spalle non le
sento più, ho le mani gonfie, mi fa male la testa…per il resto…sto bene.
Con pazienza e con diverse fermate, la terribile discesa dopo l’Alto de Erro, ci
rotola a Zubiri. Questo paese basco, senza niente di speciale da menzionare, se
non il ponte gotico, il “ponte della rabbia” sul fiume Arga, merita due righe in
più. E’ in via di sviluppo urbanistico e viabilistico, come tutta la Spagna
zapatera del periodo che pagherà questo boom con una bolla economica che
trascinerà le finanze iberiche nel baratro. Erano gli anni del preannunciato
fine dell’eldorado, come anche per l’Italia.
Comunque sia, a Zubiri ci siamo fermati anche l’anno scorso e vi abbiamo dormito
due notti, chi in appartamento privato, chi in Hostal privato. In questo ultimo,
fin dalla prima sera, già si è assaporato il significato dell’adattarsi in
camerate, con letti a castello e servizi in comune. E’ il clichè del
pernottamento povero: contributo in offerta, oppure 8/10 euro a persona per
notte. Ci siamo trovati bene, gustato delle buone cene (scoperto la bontà delle
tortillas) . Inoltre, quella sera era la festa del paese e, palco in piazza, si
suonava e si ballava fino a notte fonda, con relativa difficoltà da parte nostra
ad addormentarci. Il clou dei festeggiamenti ci ha visti partecipi nello
scappare dai fuochi di artificio montati sulle schiene di ragazzi camuffati da
toro con tanto di maschera e corna, che correvano tra la gente. Un caos e uno
spettacolo fascinoso e caratteristico in un ricorrente ondeggiare di folla
urlante, come in una specie di corrida.
Quest’anno, invece, la festa era già passata. Oltretutto, gli hostal erano pieni
e pure il “rifugio comunale”, comunque mal gestito e mal tenuto. Ci siamo
accomodati nella palestra scolastica, con materassino a terra. Se non altro,
l’acqua della doccia era calda, pur se si trattava di docce comunitarie
(tranquilli, divise, almeno quello, per maschi e femmine).
Dopo una cena al lume di candela, si fa per dire, giusto per sottolineare il
ritrovato vivere lo stare insieme, 24ore su 24ore perché
nella ferialità di tutti i giorni non è
possibile. Poi a dormire presto, per dosare al meglio le nostre incerte risorse,
ma siamo svegliati in piena notte da un forte temporale che ci ha obbligati ad
un veloce spostamento di branda perché l’acqua aveva trovato un veloce sfogo
pluviale proprio sul mio materassino. Dopotutto un’altra doccia proprio non mi
serviva.