XXXIIIa Domenica T.O.
Anno A
Toglietegli il talento, Maria Cavazzini Fortini, 11/2017 |
Ho un’età che mi ha permesso di vivere ai tempi dei “figli dei fiori”, il movimento che ha contribuito al dissolvimento dei valori consolidati attorno all’amore e alla famiglia. L’amore libero, osannato da quei giovani miei coetanei, ha indubbiamente attirato come un’ape su un fiore e l’aver lasciato, come è avvenuto, che si consumasse tale impollinazione ha gettato le basi per la cancellazione delle parole “fedeltà”e“per sempre” nei rapporti fra una donna e un uomo. La crisi conseguente dell’istituto “famiglia” fu il risultato che si ponevano i sovvertitori della legge naturale e di quella di Dio.
Perciò, quanto leggiamo
oggi nel salmo appare anacronistico:“…la tua sposa come vite feconda
nell’intimità della tua casa; i tuoi figli come virgulti d’ulivo intorno alla
tua mensa.” (dal Salmo 127)
Questa espressione del
salmo rimanda alla classica ambientazione della casa come focolare, che viene
ripresentata solo nelle pubblicità natalizie o da mulino bianco. In realtà anche
nella prassi di preparazione al matrimonio nella chiesa cattolica viene sempre
meno rimarcata questa dimensione. Cioè, viene meno quanto scrive la Venerabile
Madeleine Delbrel: “il matrimonio è la somma di due vocazioni che si ritrovano
nel medesimo focolare. I due si condizionano, si influenzano, si aiutano. Nel
celibato, invece si è davanti a Dio e Cristo diviene il coniuge. E’ il suo
regno, il focolare, e tutta l’umanità, i figli.”
Ecco, quindi, come quei
figli divengono “figli della luce”, come ci ricorda San Paolo:“…infatti siete tutti
figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle
tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.”
(dalla prima Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi)
E’ una esortazione
quanto mai attuale perché ormai siamo indotti ad una ubriacatura senza
precedenti proprio all’interno della nostra Chiesa. La prassi che spinge ad
accogliere le istanze del mondo più che confusione non crea, facendoci
dimenticare che “se l’amore di Dio è Amore, la carità non può e conoscere
limiti, poiché alcun limite può rinchiudere la divinità.” (San Leone Magno)
Infatti, la carità è
diventata la carta d’identità di una Chiesa ormai ridotta ad una ONG qualsiasi,
una carità che non si identifica con l’amore di Dio, come quello che:“…apre le sue mani al
misero, stende la mano al povero…e le sue opere la lodino alle porte della città.”
(dal Libro dei Proverbi)
Il bello è che,
nonostante tutto, il Buon Dio insiste nel volere che quelle mani siano le
nostre, quelle dei discepoli di suo Figlio Gesù. Le opere conseguenti per
aiutare e fare fronte ai bisogni del misero, del povero, dell’abbandonato sono
quelle che hanno realizzato nei secoli i nostri Santi, proprio alla luce del
sole, davanti alle città degli uomini, forti del fatto che “Gesù Cristo ci
assicura più volte, nelle Sacre Scritture, che si prende cura di noi ed è
costantemente vigilante nei nostri confronti, ci porta e ci porterà sempre nel
suo seno, nel suo cuore, nel suo grembo.” (San Giovanni Eudes)
Purtroppo, non
riusciamo a capire, a interiorizzare, a vivere in pienezza questa cura di Gesù
nei nostri confronti. Una cura tipicamente materna che assurge a paradigma per
la nostra carità, quando ce ne facciamo carico, soprattutto per difendere la
vita dal concepimento alla morte naturale.
Per ignavia preferiamo
fare come il terzo servo, quello a cui venne dato un talento:“…ho avuto paura e
sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo.” (dal
Vangelo secondo Matteo)
Noi, invece, andiamo a
nascondere la nostra stessa vita, preservandola così da tutti i mali del mondo,
quando secondo gli insegnamenti di Gesù dovremmo cambiarlo il mondo. I talenti
ci sono stati dati, pochi o tanti non importa, e come figli della luce ci è
chiesto di utilizzarli al fine di assicurarci per il futuro, per il bene nostro
e di tutti quelli che, con le opere di carità, porteremo a Gesù.
Pr 31,10-13.19-20.30-31
/ Sal 127(128) / 1Ts 5,1-6 / Mt 25,14-30
dgiemme