Domenica XXVIII T.O. (Anno C)
acquarello di Maria Cavazzini Fortini, ottobre 2016 |
Oggi la lebbra non è più una malattia che
segrega, che marchia le persone al punto da rigettarle fuori dal contesto
sociale, dal vivere in comune. E’ così perché il cristianesimo ha saputo
plasmare un tessuto sociale nuovo. Sull’esempio di Gesù molti suoi discepoli,
pensiamo a San Francesco, a Raoul Follereau, non solo hanno creato condizioni
sanitarie adatte per curare la malattia, ma hanno soprattutto accompagnato quei
malati verso una vita di riscatto nel rispetto della loro dignità di uomini e
donne, figli di Dio.
“…il tuo servo non intende compiere più un
olocausto o un sacrificio ad altri dei, ma solo al Signore.” (dal 2° Libro dei
Re)
Così che l’olocausto o il sacrificio
consisteva, per quei discepoli, nello spendersi per i bisogni dei sofferenti,
dei diseredati, dei poveri. Raoul Follereau così pregava: “Signore insegnaci a
pensare agli altri, ad amare in primo luogo quelli che nessuno ama. Abbi pietà
dei lebbrosi, ai quali tu così spesso hai sorriso quando eri su questa terra.”
E il Vangelo di questa domenica ne dà conferma:
“…Appena li vide Gesù disse loro: “Andate e
presentatevi davanti ai sacerdoti.” E mentre essi andavano, furono purificati.”
(dal Vangelo di Luca)
E’ singolare che di fronte alla richiesta di
pietà dei dieci lebbrosi, il Signore li inviti ad andare davanti ai sacerdoti,
perché essi potessero giustificarli e reintegrarli nel diritto sociale. Eppure,
nonostante la classe sacerdotale di allora non fosse della migliore specie, non
c’era alcuna intenzione di scardinarla. Anzi, in un certo senso il miracolo
della guarigione in itinere grazie al quale potevano presentarsi con la
certezza del loro riscatto, rafforza il compito e la missione del sacerdote al
punto che, nonostante tutto, ancora oggi è il fulcro della missione della sua
Chiesa. E tutto questo è addirittura profetizzato, anche il Salmo lo evidenzia:
“…il Signore ha fatto conoscere la sua
salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.” (dal Salmo 97)
Quella sua salvezza Gesù Cristo ce l’ha posta
e ce la pone a caro prezzo dal momento che si rinnova il suo sacrificio ogni
qual volta viene celebrato secondo le intenzioni della sua Santa Chiesa. Viene,
allora, proprio voglia d’intonare quell’antico inno di San Paolo che viene
riportato nella sua Lettera a Timoteo:
“…se moriamo con lui, con lui vivremo, se
perseveriamo…se lo rinneghiamo…se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non
può rinnegare sé stesso.”
Siamo noi che rinneghiamo noi stessi quando
abbiamo timore di testimoniarlo, quando lasciamo che milioni di suoi fratelli
innocenti vengano uccisi nel grembo delle loro madri,
quando restiamo indifferenti alle sofferenze del popolo curdo, quando
annacquiamo la sua liturgia, anzi la profaniamo come troppo spesse volte
avviene anche là dove si dovrebbe essere d’esempio. Si capisce, perciò, perché
anche oggi c’è bisogno di tanta purificazione. Non è dalla lebbra che dobbiamo
essere sanati, ma dalle incrostazioni dell’autosufficienza che ostentiamo nei
confronti di nostro Signore e della sua Chiesa. Quanto siamo lontani dal saper chiedere
al Buon Dio il dono di saperlo portare come segreto d’amore che illumini tutta
la nostra vita, di saperlo rivelare affinché tutte le creature benedicano il
suo nome. Il Signore non è più il nostro compagno di viaggio per dare senso al
cammino, e le nostre notti, senza la sua presenza, non trovano sbocchi verso un
mattino di luce. Abbi pietà di noi Signore, guarda come siamo ridotti; fossimo
almeno capaci di prostrarci davanti a Lui, fossimo pure solo una decina, come
dovremmo fare ogni qual volta partecipiamo al suo Sacrificio, forse anche noi,
sacerdoti, diaconi, vescovi, frati, monaci avremo qualche speranza di godere,
ciascuno della sua purificazione. E poi vedremo chi sarà colui che ritornerà
per ringraziarlo.
2Re 5,14-17 / Sal 97(98) / 2Tm 2,8-13 / Lc
17,11-19
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