LA MALATTIA E LA MORTE

                         Quinta Domenica di Quaresima       Anno A

Quando viene diagnosticata una malattia cronica per la quale c’è solo la possibilità di rallentare il suo aggravamento, in un certo qual modo la vita diventa incomprensibile. E la morte si concretizza nei pensieri, nella postura del corpo, che si prepara ad interpretare i segnali degli ultimi istanti per rendere, come si dice, l’anima a Dio.
A Lui, nello stesso tempo, si elevano preghiere: “…dal profondo a te grido, o Signore;…siano i tuoi orecchi attenti alla voce della mia supplica.” (dal Salmo)
Il tempo diventa insufficiente, ma secondo Santa Caterina da Siena: “Dio ci ha dato anche il tempo, poiché senza il tempo nulla potrebbe fare l’ortolano; ma col tempo, cioè mentre viviamo, l’ortolano può rivoltare la terra e raccogliere frutti.”Possono essere frutti dolci, buoni, come la riscoperta della fede, della pratica religiosa, della vicinanza e dell’accompagnamento dei familiari. Però, sarà cosa ardua saper scartare quei frutti amari che derivano dalla cattiva cura della vita precedente, quando non ascoltavamo sollecitazioni come quelle dell’apostolo Paolo: “…fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio.” (Lettera ai Romani)
Ce lo ricordava anche papa Benedetto XVI in un suo messaggio: “E’ indispensabile che l’uomo non si lasci asservire dal lavoro, che non lo idolatri, pretendendo di trovare in esso il senso ultimo e definitivo della vita.”
Quanti bambini uccisi nel grembo materno con l’aborto per non perdere la prospettiva di un avanzamento di carriera; quanti figli abortiti per non ostacolare una potenziale assunzione o realizzazione professionale. Quante famiglie sfasciate a causa di assenze di un padre, o di una madre, accettate perché al centro della vita c’è il lavoro e solo il lavoro fine a sé stesso. Fino a quando, carichi di rancori, di solitudini, non ci si rende conto dello sperpero del tempo a disposizione.
Spaesati e confusi si cercano, poi, dentro e fuori di sé risposte che nessuno può dare, se non Dio: “…farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete.” (dal Libro del profeta Ezechiele)
La malattia ti ferma, ti obbliga alla riflessione e, se non si cade nella disperazione, si può sentire più chiaramente quella voce interiore che porta verso la via del Signore.
“Egli sostiene tutto con la potenza della sua parola e con il soffio della sua bocca, cioè con lo Spirito che guida e dona la vita.” (San Giovanni Damasceno)
Ecco perché bisogna fare i conti con la malattia, prima o poi, e con la morte che, si spera, non arrivi all’improvviso. A subitanea morte, libera nos Domine, si pregava una volta, affinché ci si potesse, infine, preparare come si deve al trapasso, al passaggio verso l’infinito. Perché, anche nel tempo della malattia abbiamo un compito, una testimonianza da offrire ai nostri cari, al mondo: “…questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato.” (dal Vangelo secondo Giovanni)
Perciò viene spontaneo pensare che siamo stati creati da Dio, attraverso i nostri genitori, per non morire più. Purché la nostra vita sia come un edificio posto sulle fondamenta di una roccia, che è Gesù Cristo, da cui proviene la grazia della fede.
Che questo edificio s’innalzi anche durante la malattia è possibile. E’ il tempo giusto per farlo crescere, nonostante tutto. Come? Alimentando la fede, magari con l’elemosina, le preghiere, le penitenze, la pazienza, la mitezza, la sapienza e quant’altro possa illuminare gli occhi della santità. E’ questo il nostro povero modo per rendere gloria a Dio, per testimoniare che Gesù Cristo, richiamando alla vita il suo amico Lazzaro, così farà anche per la nostra povera esistenza. Abbandoniamoci, quindi, a Lui, e poniamo tutto quanto di nostro rimane, la vita, la malattia e la morte nelle sue mani.

Ez 37,12-14 / Sal 129(130) / Rm 8,8-11 / Gv 11,1.45
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