GLI OCCHI DELLA COMPASSIONE

               XVa Domenica del T.O. Anno C
La religiosità insita nel vivere umano porta alla convinzione che sia a disposizione di tutti il diritto all’eredità della vita eterna. C’è, però, un particolare per la dottrina cattolica: deve essere meritata. Le dritte per capire come, ci vengono pure date fin dalla più tenera età. Ancor prima non occorre perché si è innocenti a prescindere. Perciò i bambini che muoiono nel grembo materno per malattie o per aborto volontario (guai per coloro che lo procurano) sono già nell’eternità beata. Per tutti gli altri non c’è scusa che tenga: la legge del Signore è chiara e semplice come dice Mosè ai titubanti israeliti:
“… questa Parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica.” (dal Libro del Deuteronomio)
Come dire che ci è connaturale, che non dovremmo affatto avere difficoltà a metterla in atto nei rapporti con gli altri e nello specifico dovere nei confronti di Dio.
Ovvio che non basteranno di certo liturgie, preghiere, genuflessioni, incensamenti per assolversi da ogni dovere. Il buon Dio vuole che siano giustificate dal modo con cui ci si comporta poi con gli altri. Se non lo puoi gabbare con i cerimoniali, tanto più potrai ingannarlo su questo campo perché:
“… il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi.” (dal Salmo)
Infatti, a Lui basta guardarci negli occhi per capire lo stato d’animo con cui viviamo le nostre giornate, con cui spendiamo i nostri talenti, con cui traduciamo la Parola in fatti. Si dice che gli occhi sono lo specchio dell’anima e non è mica un detto sbagliato. Guardate gli occhi dei santi, potranno anche essere intagliati su facce brutte, rugose, storte, ma come non essere attirati dallo sguardo da Madre Teresa di Calcutta? Ma pure senza essere santi, vi sono tanti buoni cristiani che non abbassano lo sguardo, che mentre ti parlano ti guardano negli occhi, che esprimono serenità anche nelle avversità, nelle battaglie della vita. E sanno sorridere, sanno accogliere perché hanno assorbito, tutto il corpo l’ha assorbito, quell’invisibile che solo in Gesù Cristo si è reso visibile, come scrive San Paolo:
“… Cristo Gesù è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili.” (dalla Lettera ai Colossesi)
Non c’è verso, questa è la realtà delle cose, senza luminosità e senza compassione possiamo ben scordarci la vita eterna. Potremmo anche essere dotti come quel fariseo che ben conosceva i precetti, ma non conosceva il suo prossimo:
“… E chi è il mio prossimo?” (dal Vangelo secondo Luca)
Il samaritano di cui parla Gesù è quello che sa ben conoscere chi è il suo prossimo ed è quello che ha saputo vedere con gli occhi della compassione. In realtà, il vero samaritano è Gesù Cristo che non venne come turista in questo mondo e nemmeno a curiosare, a fare una passeggiata e vedere come stavano le cose. Lui c’insegnò la compassione per la sofferenza e per questo se la prese su di sé. Si carica sulle spalle ciascuno di noi, ferito, ci cura e ci porta alla porta del Padre, dicendogli che verrà a saldare quanto sarà necessario per la riabilitazione. D’altronde non può non ritornare ogni volta, perché l’amore non può restare indifferente, non può fare finta di non vedere come stanno le cose. E le cose stanno veramente male. Basti pensare che l’Europa ha deciso che il “diritto” d’aborto deve entrare nella sua Costituzione. Il male ha preso cittadinanza nella ex-culla della civiltà cristiana. Ormai nessuno più si ferma davanti allo strazio di questa umanità ferita. Quasi tutti passano oltre. Il pensiero comune è assimilabile a quel “accada quel che accada”, basta che non tocchi a me e non mi affligga. In questo modo si alimenta solo la cultura dell’indifferenza, ma così non si potrà sconfiggere il male. Il contrario di questo atteggiamento è l’amore, quello compassionevole che Gesù, il buon Samaritano, testimoniandolo ai suoi discepoli, continua a dispensare per il perdono e la vita eterna.
digiemme
Dt 30,10-14 / Sal 18(19) / Col 1,15-20 / Lc 10,25-37