COME L’INNOMINATO

XXVIma Domenica T.O. (Anno A)

Nessuno nasce santo, ma tutti siamo invitati a diventare santi. Dio sa che nella nostra vita
siamo chiamati alla perfezione e che ne abbiamo i mezzi, ciascuno secondo i meriti e le possibilità che gli sono proprie. Nessuno nasce malvagio, ma il peccato d’orgoglio spinge a sentirsi estraneo ai precetti del Signore. Perciò se ne vedono di tutti i colori e la cattiveria dilaga sulla terra. Tutti possono contribuire al bene, così come, in vari modi, ognuno può diffondere il male. Non credo che uno, si alzi al mattino, e decide: “oggi voglio fare il male”, piuttosto crede di essere nel giusto e nel doveroso con i suoi comportamenti e le sue scelte. Purché gli portino benefici e potere, utilità e gloria, ricchezza e agiatezza. Non importa se per ottenere tutto ciò debba calpestare la libertà e i diritti di chi si trova sulla sua strada.

Questa è la taratura del malvagio, fintanto che non subentra qualcuno o qualcosa che lo ferma: “…(il malvagio) ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà.” (dal Libro del Profeta Ezechiele).
Qualcuno o qualcosa è capace di scrostare la corazza di indifferenza che si indossa ogni mattina quando si comincia un altro giorno, nello stesso modo del giorno precedente e di tutti i giorni dei nostri anni. Altri invece sono incapaci di riandare ai giorni più importanti della vita: al giorno in cui si nasce e al giorno in cui, forse, si scopre il perché si nasce. E’ quello che è successo al famoso Innominato del Manzoni, di fronte alla fede innocente e sicura della povera Lucia. In quel giorno ha scoperto il senso della sua vita, del come l’abbia sprecata fino ad allora e, soprattutto come:
“…buono e retto è il Signore, indica ai peccatori la via giusta.” (dal Salmo 24).
Per venirne a capo, Gesù ha fondato la Chiesa e in essa ha posto la Liturgia. Dentro la Chiesa e nella Liturgia tutte le resistenze, le incrostazioni dure a sciogliersi, poco per volta lasciano il campo alla docilità, alla malleabilità e le cose si cominciano a capire.
Anche gli scritti di Paolo:
“…non fate nulla per rivalità o vanagloria. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.” (dalla Lettera di San Paolo ai Filippesi).
Si entra così nella dimensione comunitaria, dove la carità, insieme alla fede e alla speranza, assume il metro di paragone della nobiltà d’animo di ogni buon cristiano. Gli altri trasformano il “mio” in “tuo”, o meglio in “noi”. In questo “noi” ci stanno soprattutto i più poveri, che non sono quelli senza soldi, sono gli ultimi, quelli che non hanno voce, che contano solo sulla benevolenza del prossimo. Penso ai bambini che sono nel grembo materno e devono solo nascere, alle persone malate o in condizioni di disabilità permanente, agli anziani, ai vecchi, ai morenti. Se non saremo capaci di guardare ai cuori di queste persone con la dovuta condivisione del loro stato di vita, allora saremo fra quelli cui si rivolgeva Gesù Cristo:
“…in verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.” (dal Vangelo secondo Matteo).
E’ una bella provocazione, ma vale come quella di domenica scorsa, quando il Padrone si permise di pagare con la stessa moneta anche gli operai dell’ultima ora. L’innominato dell’ultimo momento, l’anticlericale accanito, gli sperperi del proprio corpo, trovano la via giusta solo quando, abbracciati dalla Grazia, ritornano ai due giorni più importanti della loro vita. Ricordate? Come quelli del “buon ladrone” sulla croce di fianco a Gesù.

Ez 18,25-28 / Sal 24(25) / Fil 2,1-11 / Mt 21,28-32 

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