Sesta Domenica di Pasqua(Anno A)
Il brano della prima lettera di Pietro che ci
viene proposto mi mette sempre in crisi:
“…pronti sempre a rispondere a chiunque vi
domandi della ragione della speranza che è in voi”.
Mi obbliga ad un esame di coscienza continua.
Come ho dato ragione della mia fede oggi? Ho approfittato di quella o questa
occasione per parlare della speranza che viene da Gesù Cristo? Ho fatto
riferimento in modo chiaro al nostro Dio, al Dio Cattolico, perché in questo io
credo?
E penso a tutto quello che mi accade di
giorno in giorno: il lottare per il lavoro, il donare quel poco di tempo che ti
rimane per non fare cadere la speranza in chi ha difficoltà, problemi,
sicuramente più grandi dei tuoi. Come la fanciulla che aspetta un bambino e non
sa come venirne fuori; come il ragazzo che arriva in comunità e non sa cosa
aspettarsi; come quella madre ormai al lumicino di vita da trascorrere in una
casa di riposo e non riesce ad accettarne l’epilogo.
Sempre mi domando se riesco, anche solo in
minima parte a trasmettere quella speranza che sento dentro di me e come vorrei
essere, raccontano gli Atti degli Apostoli, come Filippo che:
“…predicava loro il Cristo…e vi fu grande
gioia in quella città.”
Invece la nostra è una città triste, senza
speranza. Domandiamoci perché. La storia, ormai, ci insegna che quando
l’umanità si trascina nella decadenza, a ben guardare, significa che ancor
prima la Chiesa ha smarrito la sua identità, non riesce più a sprigionare
gioia, e non solo nella nostra misera città.
E’ una Chiesa che non sa più cantare neppure
il Salmo di oggi:
“…Popoli, benedite il nostro Dio, fate
risuonare la voce della sua lode; è Lui che ci mantiene fra i viventi e non ha
lasciato vacillare i nostri piedi.”
E’ una Chiesa ripiegata, che non sa più farsi
riconoscere: le chiese di pietra sono sempre più vuote, i simboli non vengono
più proposti con convinzione, i sacerdoti si mimetizzano, la devozione popolare
derisa, il Cristo sempre più relegato in un angolo. Eppure, il Salmo ce l’ha
appena ricordato, è Lui che ci mantiene fra i viventi.
Se, appena, appena, comprendessimo, veramente
i nostri piedi comincerebbero a camminare in modo retto verso l’ascolto della
Parola:
“…chi accoglie i miei comandamenti e li
osserva, questi è colui che mi ama…anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui…Voi,
invece, mi vedrete perché io vivo e voi vivrete.” (Vangelo di Giovanni).
Dopo l’ascolto di queste Parole, di queste
promesse, non è che ci rimanga altro da fare: dobbiamo solo amare Lui che è il
Dio Vivente. Il bello è che veramente lo possiamo vedere ogni qualvolta lo
vogliamo: nel tabernacolo, nell’ostia consacrata, nell’Eucaristia che riceviamo
ogni qualvolta abbiamo accolto i suoi comandamenti.
Se, invece, ci avviciniamo alla Comunione con
tutti i peccati di omissione sul fardello, e basta guardare agli ospedali dove
ogni settimana vengono sterminati innocenti, con il complice silenzio di chi
invece dovrebbe osservare i suoi comandamenti, allora è solo la nostra
condanna.
Gesù Cristo dice che è pronto ad amarci, e
con il rinnovo del Sacrificio lo dimostra e si manifesta a noi, solo che
veramente gli crediamo.
Accogliamo, quindi, e osserviamo i suoi
comandamenti: così vivremo.
At
8,5-8.14-17 / Sal 65(66) / 1Pt 3,15-18 / Gv 14,15-21
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