DIARIO DI UN PELLEGRINO: BURGOS – SAN BOL Domenica, 9 Agosto 2009

Che la tua vita non sia una vita sterile. 
Sii utile. Lascia traccia.Illumina 
con la fiamma della tua fede
e del tuo amore.
Cancella con la tua vita d’apostolo
l’impronta viscida e sudicia che i seminatori
impuri dell’odio hanno lasciato.
E incendia tutti i cammini della terra con
il fuoco di Cristo che porti nel cuore”
(San Josemaria Escrivà)
Se tentate di localizzare San Bol, non lo troverete su alcuna cartina perché non è un paese, non è una cascina, è…segui il racconto.
Partiamo come al solito alle 7,00. La città è semideserta, ci accostiamo al fiume, su larghi marciapiedi, e ci avviamo freschi e silenti, guardando e sorridendoci.
Dopo un bel po’ usciamo da Burgos ed inizia un brutto sentiero fatto di sassi spezzati che fanno male ai piedi. Probabilmente non sapevano dove scaricare materiale di risulta ed hanno pensato bene di livellare il battuto. Lasciamo alla nostra sinistra il paese di Villabilla e dopo aver fatto alcune deviazioni dovute al nuovo svincolo autostradale ci troviamo finalmente su traccia più tranquilla.
Quando ci si affianca e si superano altri pellegrini, di solito, ci si saluta con un “buen camino” o una “olà”. Più raramente si sente “Ultreya! – Suseya!” che significa “vai oltre – con l’aiuto del Signore”.
E di solito, siamo noi ad essere affiancati e superati, da buon vecchierelli. Una ragazza si avvicina e le dico “ciao”, lei rallenta, si volta e risponde “ciao, siete italiani”. “Come hai fatto a capirlo” – “solo gli italiani dicono ciao”. E così conosciamo Melania dal Trentino, cammina da sola, giovane, solida e forte con un passo da battaglia, non molto loquace, ma con un sorriso dolce ed un’indole riflessiva. Questa radiografia è il risultato del continuo perdersi e ritrovarsi che si vive sul cammino e anche con Melania, come con altri, magari senza nome, sarà un altalenante vedersi quando meno te lo aspetti.
Arriva il paese di Tardajos e già si nota l’assembramento al primo bar della giornata per la consueta grande colazione. Tutte le lingue, italiano, francese, inglese, spagnolo, tedesco, si rincorrono, si sovrappongono, c’è allegria, risate e complicità.
 Jean Pierre è un italo-francese grande e grosso, tipo Bud Spencer, barba folta e cuffia alla marinara in testa, e tiene banco. Non si può non notare. A sera sarà nostro buon interprete. Alla spicciolata ognuno riparte, chi solo, chi in coppia, chi in gruppo e presto le distanze fanno sì che si rimanga soli, liberi di cominciare le proprie preghiere mattutine.
A Rabé de Las Calzadas prendiamo fiato perché sappiamo che appena dopo l’ultima svolta del paese ci sono le temibili “mesetas”. Sono lo spauracchio che ogni pellegrino teme come nient’altro per la calura, per il vento, per l’estensione, per il piatto infinito che serpeggia senza punto di approdo all’orizzonte. Queste terre sono altipiani verdi in primavera per il frumento che matura, giallastre d’estate per il grano già mietuto. Anche noi vi ci si addentriamo con apprensione e dopo la faticosa salita d’introduzione ecco apparirci ben chiara, come disegnata da un largo pennellesse la riga bianca del sentiero che si staglia e si snoda, qua e là punteggiata da piccole macchie colorate che sono pellegrini avanti a noi.
Lasciamo alla nostra destra la Fuente di Prao Torre, rispetto al sentiero, qualche centinaio di metri, perché non vogliamo perdere il ritmo e perché la scorta di acqua è sufficiente per attraversare il Sahara.
Cammina, cammina, neanche un’ombra, un capanno, una nuvola. Il sole è implacabile e fa il suo mestiere, ben presto siamo immersi nel nostro sudore, ogni tanto, sempre più spesso, una sosta per bere e per guardare all’orizzonte. Le ore passano, cominciano le prime fantasie, le prime visioni, fino a quando davvero ci appare un miraggio, sembra un’oasi, una macchia verticale di verde e un cartello che indica sulla sinistra “San Bol”, aperto.
Secondo i calcoli della guida, al paese successivo, Hornillos del Cammino, dovrebbe mancare ancora un’ora (per noi una mezz’ora in più) di marcia. Decidiamo, allora, di andare a vedere, mal che vada faremo un’ulteriore sosta in più.
Qui il vento è forte, quella macchia di verde risulta essere un boschetto di alti pioppi che offrono ombra e frescura ad una radura occupata da campeggiatori spagnoli.
C’è pure uno strano edificio che sembra un trullo, ma da vicino sembrerebbe una chiesetta, in realtà è un rifugio, malandato e semi diroccato. In compenso c’è una fonte d’acqua che sgorga proprio da sotto l’edificio che viene raccolta in una grande vasca e poi si riversa intorno. Ecco spiegato la rigogliosità della zona.
Ci accoglie una hospitaliera ungherese, non ricordo il nome, e ci dice che se vogliamo fermarci a dormire ci sono ancora giusto due posti letto. L’ambiente è proprio ristretto: due stanze, una per mangiare, con piccola cucina, l’altra per 4 letti a castello.

Il sottotetto (la famosa cupola) raggiungibile con scala a pioli è utilizzato dagli hospitalieri. Stiamo per chiedere…e la bionda amica ci anticipa: niente luce, niente acqua (solo la fonte), niente docce…e per i servizi, la campagna d’intorno.
Sono otto ore che camminiamo, siamo talmente stanchi che decidiamo di fermarci.
Abbiamo fatto bene: i campeggiatori stavano ultimando di fare andare una mega padella di “paella” e siccome ne hanno avanzata un po’, prima di partirsene hanno voluto dividerla con i presenti nel rifugio. Un piatto da leccarsi i baffi, sono maestri con questa loro specialità e possiamo confermarlo.
Dopo questo inaspettato lauto pranzo, il resto del pomeriggio è trascorso nel più sereno e rilassante, seppur quasi storditi dal vento sibilante fra le fronde degli alti alberi, sonnecchiamento fra un pediluvio nella famosa vasca e una passeggiata fra i brevi tratturi del boschetto. Nel frattempo ci si intratteneva con gli altri ospiti fra cui abbiamo ritrovato la Melania e Jean Pierre, che portava ancora la cuffia. Solo in un’occasione l’abbiamo visto senza, e la sua totale “pelata”  ha spiegato il tutto.
La cena, invece, fu offerta dal rifugio. In verità, in cucina si mise la Mariella, aiutata da un ragazzo italiano di Catania e, pur con tutti i limiti di un ambiente molto spartano, pure nell’attrezzatura e nelle riserve alimentari, il risultato fu dignitoso e sufficiente a calmare la fame dei presenti. Eravamo in dieci, quattro italiani, un francese, un portoghese, tre tedesche e l’ungherese.
Poi, dopo cena si sarebbe aggiunto uno spagnolo, Antonio, hospitaliero di un altro rifugio che avremo incontrato il giorno dopo. A conclusione della mangiata, l’amica ungherese ci annuncia una sorpresa e l’atmosfera nella piccola stanza illuminata dalla luce di alcune candele divenne ancora più affratellante. In sostanza, era un tipico modo del suo paese di concludere il pasto con un brindisi a base di vino e alcol. Ben dosato in una grossa ciotola, viene dato fuoco e con abili movimenti di cucchiai e di bicchieri, la bella magiara riusciva a creare zampilli e cascate di fuoco, fino all’esaurirsi dell’alcol. L’effetto era notevole, nel semibuio dell’ambiente, se poi si aggiungono i versi, le parole, le risatine, che accompagnavano i movimenti, sembrava di essere in un’anticamera dell’antro di mago Merlino.
Tutto un'altra cosa rispetto allo spirito religioso che finora avevamo respirato nei dopo tappa. Anche questa è esperienza. Molto folclore, che fu subito sostenuto dall’amico hospitaliero arrivato da noi, appena dopo l’infuocato brindisi, a cavallo di una “vespa” e una chitarra al collo.
Da questo momento la serata prese il giusto abbrivio, piena di canti, musiche boleranti, gorgoglie spagnole e….l’allegria si alzò come il contenuto alcolico che ciascuno contribuiva ad alimentare.

A suggellare l’amicizia che aleggiava pur nelle difficoltà della comprensione linguistica (ecco il Jean Pierre nostro buon interprete), ognuno fu invitato a cantare una canzone del proprio paese.
Noi proponemmo Azzurro e, meravigliando lo spagnolo, cantammo:
 “Adios con el corazon, porcuè con l’alma no puedo, ad esperdi me de ti, un sientimiento me muero. Tu serà sel bien de mi alma, tu serà sel bien de mi vida, tu serà sel paiero pinto che allegro canta a la magnana”.
Con l’eco di questi canti, con il vento che fuori continuava a cantare fra le alte chiome e la luna che tutto inargentava, non si poteva non donarci una speciale buona notte, speciale come l’amicizia che semplicemente ha abbracciato tutti noi.

Gaetano Mercorillo