QUARTA DOMENICA DI AVVENTO (ANNO A)


LA CUSTODIA
Colui che ha voluto assumere la nostra natura umana, senza annacquare la sua natura divina, ha deciso che doveva avvenire all’interno di una coppia, uomo e donna, così come era, d’altronde, sempre stato, fin dal principio per ogni figlio dell’uomo. In questo periodo di avvento, di attesa, ben si sono snodate tutte le trame che imbastiscono l’Annunciazione e la figura della Vergine Maria, la Madre di Dio, la corredentrice. In questa tornata ci è offerta, in più, la possibilità di conoscere meglio il papà di Gesù, il buon Giuseppe: “…Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa…ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli, infatti, salverà il suo popolo dai suoi peccati.” (dal Vangelo di Matteo).
I nomi propri hanno sempre avuto un’importanza specifica, un significato che contraddistingueva chi lo portava, oggi non è più così, si segue solo un gusto, ma così è, purtroppo. Invece, l’incarnazione di Dio già è prefigurata con il nome Emmanuele, che significa “Dio è con noi”, successivamente, la nascita attesta il nome di Gesù che “è colui che salva”. Qui entra in gioco Giuseppe, è lui che è incaricato di chiamare il figlio Gesù, è lui, umile falegname, che si assume il compito di fare crescere il figlio che sarà colui che salverà il suo popolo. Una bella prospettiva, che Giuseppe mai più avrebbe pensato di dover affrontare. Magari, anche lui, come noi, si sarà inginocchiato nel pregare con il salmo: “…allarga il mio cuore angosciato, liberami dagli affanni. Vedi la mia povertà e la mia fatica e perdona tutti i miei peccati.” (dal Salmo 23).
Se Dio ha chiamato, comunque, Giuseppe a custodire la sua sposa e il bambino Gesù, mi piace pensare che abbia scelto una persona giusta perché è un uomo concreto che deve saper fare di conto, deve saper usare gli strumenti che tagliano, e all’opportunità non solo il legno, deve saper difendere la dignità delle persone, in primis dei suoi cari, deve saper accettare le prove, anche quando non si sa dove e a cosa porteranno. San Paolo, uomini così, li chiama santi: “…a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace di Dio.” (dalla Lettera di San Paolo ai Romani).
A dire il vero, anche noi, in forza del nostro battesimo, saremmo chiamati ad essere santi, ma di questi tempi, a Roma, di cristiani ne rimangono ben pochi. A Roma si addice a fagiolo la situazione che richiama Isaia: “…ascoltate casa di Davide! Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio. Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele.
Ecco, quel monito e quel richiamo aperto alla speranza, alla volontà di Dio di non abbandonare il suo popolo, sono il lieto motivo della ricorrenza del Natale. E’ per questo che fra gli uomini di tutta la terra, nonostante tutte le brutture che serpeggiano in ogni angolo del globo, aleggia uno spirito di gioia condivisa. Potessimo viverla tutti i restanti giorni dell’anno!  Sento, però, che Giuseppe ci può essere di esempio quando lo pensiamo chino su quel piccolo bambino, in un abbraccio che protegge e sorregge tutta la sua famiglia. Sentiamoci, allora, felici e con il desiderio di contagiare molti di questa gioia. Restiamo poveri e piccoli, senza particolari ambizioni, capaci di uscire da noi stessi e di impegnarci per essere messaggeri di pace e di speranza. Quella vera pace che nasce con il bambino Gesù, perché è Lui la nostra pace, è Lui la nostra speranza.
Ora lo sappiamo, sta a noi saperne essere buoni custodi.
Is 7,10-14 / Sal 23(24) / Rm 1,1-7 / Mt 1,18-24

digiemme