Quinta di Quaresima (anno A)
Se fossimo i giudei di Gerusalemme, saremmo
fra quelli che si sono recati a consolare Marta e Maria, a portare le loro condoglianze.
Saremmo coloro che stanno indietro quando Gesù supera la soglia di sicurezza e
si avvicina al sepolcro per chiamare Lazzaro.
Siamo, invece, sicuramente, uomini e donne di
oggi che rifuggono nell’oblio veloce, scaramantico, delegante asettiche stanze
ospedaliere quali ultime dimore di solitarie sofferenze delle persone “care” o
parenti di amici e conoscenti. Siamo coloro che volentieri accettano la volontà
dell’incenerimento del defunto per stare il più possibile lontano dalla
deposizione nella tomba, nel sepolcro.
Se fossimo i discepoli che con Gesù ricevono
la notizia della malattia di Lazzaro, anche noi consiglieremmo di stare lontano
dalla Giudea per le minacce dichiarate, mentre Gesù già si prepara per fare
tutto il possibile per il suo amico, anche rischiare l’incolumità.
Eppure, come uomini e donne d’oggi, siamo
pronti a trovare solo plausibili giustificazioni per evitare di correre in
aiuto di chi è in pericolo. Addirittura, sempre più spesso, evitiamo, se pur
qualche gesto di solidarietà o di aiuto lo si mette in pista, di praticarlo nel
nome di Signore, quasi fosse troppo pericoloso professare apertamente di essere
cristiani.
Lazzaro è il nostro problema. Siamo veloci a
portare quelli come lui in ospedali, in hospice, anticamere di morte, cimiteri
bianchi come quelli degli elefanti. Siamo osannati se li portiamo in Svizzera,
oggi, in ogni dove italiano, domani, davanti al boia in camice bianco.
Lazzaro, invero, è la nostra salvezza:
“…liberatelo e lasciatelo andare” Strano questo ordine di Gesù. Ci si sarebbe
aspettato, dato le condizioni amicali, un gesto di accoglienza, un abbraccio,
ed invece, si limita a quel comando, che sembra proprio sia rivolto a noi.
Io ho vinto la morte…”Io sono la risurrezione
e la vita: chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me,
non morirà in eterno”, adesso tocca a voi liberare dai malefici lacci di morte,
trarre dal regno del putridume, dal buio degli inferi coloro che sono morti e
non solo di quella morte corporale, per indicare quale strada riprendere per
tornare a “casa”, tornare a vivere.
Sembra di sentire il profeta Ezechiele:
“…farò rientrare in voi il mio spirito e rivivrete.” Questo perché è evidente
che senza il pedagogo Gesù non riusciremmo a capire. Vedi, per esempio, il fatto
che prima di partire per Betania Gesù aspetta due giorni e si presenta
all’entrata del villaggio il terzo giorno, preludio a quanto gli sarebbe
accaduto da lì a poco con la sua morte e Resurrezione. Tommaso, detto Didimo,
che era convinto di andare a morire anche lui a Betania, non aveva,
evidentemente, ancora capito: “…se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non
gli appartiene.” Se questo, ammonisce Paolo ai fratelli della comunità di Roma,
quanto è opportuna la preghiera del Salmo: “io spero Signore. Spera l’anima
mia, attendo la tua Parola.”
Nello stesso tempo ci renderemo conto dei
nostri limiti e faremo nostra l’espressione “…Signore, se tu fossi stato qui,
mio fratello non sarebbe morto…”.
Questa sconsolata ammissione di fiducia è
ripetuta ben due volte nel brano evangelico ed è detta da due persone diverse
come Marta e Maria. Quasi a ricordarci che la speranza va coltivata sempre,
indipendentemente dalle persone e dalle condizioni temporali. In questo modo
potremo meglio comprendere il passaggio evangelico: “…questa malattia non
porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio…”.
Teniamolo presente quando arriverà il nostro
turno, sappiamolo affrontare in questa ottica, consapevoli di essere in quel
momento strumento del Buon Dio per la nostra salvezza e quella di coloro che ci
stanno attorno, al fine di donare quella speranza che cambia la vita e non nel
modo che ciascuno vuole o immagina. Cento volte meglio.
Ez 37,12-14 / Sal 129(130) / Rm 8,8-11 / Gv
11, 1-45
digiemme