La vita presente è un cammino che ci porta al termine della nostra speranza, 
allo stesso modo in cui si vede sui germogli il frutto che sta per sbocciare dal 
fiore; grazie al fiore il frutto giunge all’esistenza, anche se il fiore non è 
il frutto. Allo stesso modo, la messe che nasce dai semi, non appare subito con 
la spiga, ma dapprima cresce l’erba, poi quando è morta l’erba, si erge lo stelo 
di grano e così il seme matura in cima alla spiga…così, la morte, la vecchiaia, 
la giovinezza, l’infanzia e la formazione dell’embrione, tutti questi stati, 
sono come altrettante erbe, steli, spighe, che formano un cammino, una storia e 
una potenzialità che permettono di giungere alla maturità attesa. 
(San Gregorio Nisseno)
Alle 5,30 la Mariella mi sveglia, ha sul capo la pila da “minatore” e sta già 
preparandosi per la partenza. Cercando di fare nel modo più silenzioso 
possibile, quasi tutti ancora dormono, siamo in strada alle 6,00 in punto, come 
da programma ed è buio pesto, appena fuori dall’abitato. Il cielo è 
limpidissimo, le stelle si vedono tutte e il fatto di aver dormito male, in una 
camerata da almeno 50 persone, con gli inconvenienti che questo comporta, per 
esempio avere sopra di noi due orientali con cui non si è riusciti a scambiare 
neppure un minimo, non dico di parole, ma neppure di gesti, è stato subito 
dimenticato per il piacere di questo momento. Oltretutto, allietato dalla 
visione di non meno di dieci stelle cadenti. Era tutto un indicare all’altro: 
“guarda quella,  un’altra!, un’altra 
ancora” . Quanti desideri sono inconsciamente scivolati sui nostri sorrisi, 
consapevoli che quanto meno uno già si stava realizzando: camminavamo felici, 
insieme, mano nella mano guardando il cielo e la luna, leggeri e spensierati.
In lontananza un’altra forte luce si stagliava, isolata, non riuscivamo a 
capirne l’origine, poi al primo paese che incontrammo, Ledigos, la nostra 
curiosità fu soddisfatta: era un carcere di massima sicurezza. La brezza che 
sentivamo sulla pelle ci fece riflettere sul senso di libertà che viviamo e di 
cui puoi naturalmente goderne, come puoi, all’improvviso, esserne privato.
E noi, avanti attraverso i “campos”. Siamo andati bene fino alle 11,00. Ad ogni 
paese una pausa. E’ una sensazione strana e particolare ogni qualvolta vedi 
all’orizzonte il segno di un paese, di solito tratteggiato da un campanile, 
cominci subito a cercare di immaginare come saranno le case, le vie, lunghe o 
ingolfate in piazzette, slarghi o incroci, che persone incontreremo, e già il 
leggerne il nome è un’emozione come quando ti compare il cartello di Terradillos 
de Los Templarios. Un nome che già dice la storia di questa cittadina protetta e 
tramandata dai famosi cavalieri cristiani.
Oppure, Moratinos, che ci meravigliò con alcune sue case interrate ed, infine, 
San Nicolas del Real Camino che deve, invece, la sua fortuna proprio al Cammino, 
viceversa non sarebbe altro che un paesello della pianura palenciana. A 
proposito, dopo si entra nella provincia di Leon. Subito s’incontra la cittadina 
più importante della giornata: Sahagun. Chissà perché, mi sembra più che altro 
un nome asiatico sudorientale, in realtà è proprio la classica città spagnola. 
Sul sentiero dal quale già si intravede Sahagun ci viene incontro un tizio in 
motorino che ci offre alcuni volantini 
 reclamizzanti 
posti e luoghi dove mangiare e dormire, comincia la frenesia dell’accaparramento 
dei pellegrini perché ormai anche questo è “affari”. Per ritornare al giusto 
spirito, decidiamo di prendere la deviazione per passare davanti all’Ermita de 
La Virgen del Puente, ma era chiusa. Pazienza. La città è viva, frenetica, con 
parecchio traffico, il centro storico come si conviene per una città antica, 
mettiamo il “sello” e decidiamo di proseguire. Per ripida discesa arriviamo al 
Puente Del Canto, molto bello, costruito nel 1085 e dopo aver superato il rio 
Cea ci troviamo al cospetto del leggendario Prado de Las Lanzas (campo delle 
lance) dove si combattè una cruenta battaglia fra le truppe cristiane di Carlo 
Magno e quelle saracene del caudillo Aigolando. La leggenda dice che la notte 
prima dello scontro, presso l’accampamento cristiano i soldati infilzarono le 
loro lance nel terreno preparandosi alla battaglia nella preghiera. Al mattino 
trovarono quelle lance come fiorite, segno della benevolenza del cielo per 
quello che sarebbe stato l’esito del combattimento. Morirono in 40.000 ma la 
vittoria cacciò in modo definitivo i mori da quella regione.
Noi, per riposarci un po’, invece, ci dedicammo alla visita di una chiesa lì 
vicino, non ricordo il nome, forse dedicata a San Francesco, dove, con sorpresa 
e piacevole simpatia, ammirammo un altare in cui c’era una tela raffigurante 
Sant’Antonio che gioca a carte con Gesù Bambino.
Nel frattempo, svanita la freschezza fisica mattutina, il sole faceva il suo 
dovere e in quel di mezzogiorno è implacabile. Perciò non se ne poteva più. E la 
Mariella ad un certo punto, acquattatasi sotto un alberello, diceva che lei non 
faceva più un passo. Solo il profilarsi di un ennesimo campanile al di là di una 
superstrada, ci convinse che eravamo giunti alla meta: Calzada del Coto. Erano 
le 13.30.
Ci troviamo di fronte ad un piccolo caseggiato, una specie di spogliatoio per i 
nostri campi da calcio di periferia, con la scritta “Albergue del peregrino San 
Roque”. Era aperto, ma non c’era nessuno, informazioni presso il bar del paese. 
Andiamo al bar e il gestore ci dice che dobbiamo aspettare che torni sua moglie, 
ne approfittiamo per il “pranzo” e ritorniamo al “residence”. Nel frattempo si è 
quasi riempito: all’ingresso, di fronte ci sono i servizi, ampi con una doccia e 
acqua tassativamente fredda, a sinistra una piccola camerata, circa venti letti, 
totalmente già occupata da un gruppo di spagnoli, a destra idem, ma occupata 
solo da due suore coreane che avevamo già intravisto alcuni giorni prima. Ci 
sistemiamo nel più assoluto silenzio, tanto le monache erano impegnate nella 
preghiera. Dopo la rinfrescata e il riposo occorre medicare i piedi di Mariella 
che ha un paio di vesciche sui talloni, ma con nostro orrore scopriamo di non 
avere più negli zaini il necessaire per le medicine e i prodotti di pronto 
soccorso: l’abbiamo dimenticato, cioè ormai perso, a Calzadilla. Probabilmente, 
senza volerlo, i nostri vicini del piano di sopra, orientali, devono averlo 
spinto sotto il letto e quando al mattino, al buio, abbiamo preparato gli zaini 
non ce ne siamo accorti.
Va bene, ci mettiamo una pietra sopra e andiamo a cercare una farmacia (sic), 
c’è solo una bottega, ma non hanno ago e filo e, questa volta, neppure le buone 
intenzioni della signora gestora che va a cercarlo in casa e non lo trova, 
riescono a risolvere la faccenda. 
Il paese non è che un gruppo di case affacciate sull’unica via, perciò ci 
stravacchiamo su una panchina, sull’altra ci stavano le suore (di clausura?) che 
non abbiamo mai sentito parlare. Sarà una caratteristica degli orientali.
In compenso gli spagnoli sono l’opposto e meno male perché il resto della 
giornata e della sera abbiamo potuto passarla con loro. Erano un buon numero, 
tutti amici, quasi della nostra generazione, uno di loro parlava molto bene 
l’italiano e ci faceva da traduttore oltre che da informatore. Ogni anno 
organizzano una decina di giorni di pellegrinaggio, cioè fanno il Cammino a 
pezzi, e quest’anno si fermeranno a Leon.
Sono molto ben affiatati e questa sera più gasati del solito perché uno di loro 
compie gli anni. Già la luna era alta, le suore erano scomparse, ma i baccanali 
sul prato antistante lo “spogliatoio” erano appena all’inizio. Siamo stati 
invitati a parteciparvi e così fra una bevuta ed una fetta di torta siamo giunti 
all’epilogo della nostra tappa. Al buio, con una lama di luce che entrava dalla 
finestra per un’imposta non del tutto chiusa, per doveroso rispetto delle 
evanescenti suore, sentiamo le ultime lontane iberiche risate, scivolando nel 
sonno riparatore.